Lo Stabile Sloveno e Thomas Mann




Un omaggio alla grande cultura mitteleuropea attraverso uno dei suoi più grandi cantori ed interpreti: questa la proposta dello Stabile sloveno per il mese di ottobre con la riduzione teatrale di “La montagna incantata” di Thomas Mann (1875-1955)).

Di certo la nostra città non può che avere a cuore questo capolavoro dello scrittore tedesco le cui linfe ed ispirazioni hanno rispecchiato in modo profondo e geniale lo spirito di un’intera epoca. La crisi della borghesia ottocentesca, di cui Mann faceva parte, lo spodestamento dell’Io da entità solida e positiva a magma caotico di pulsioni ed istinti oscuri e incontrollati, il tramonto delle grandi narrazioni della realtà e di ogni tentativo di sintesi culturale.

I mali del ‘900 hanno potuto esprimersi con tanta potenza in questo scrittore e nella sua “Montagna incantata” anche in forza della cultura a cui Mann apparteneva. Se il decadentismo fu una stagione estesa in varie modalità in tutta l’Europa, di sicuro trovò nella Germania della prima metà del secolo scorso il terreno più adatto allo scatenarsi delle sue forze demoniache e distruttive.

I personaggi della “Montagna incantata” rappresentano, nel loro isolamento nel sanatorio di Davos e nel loro costante rapporto con la malattia che li isola dal resto della realtà, la condizione dell’uomo moderno che ha perso il suo centro e il suo asse di orientamento. Costretto all’inazione, alla solitudine e ad un’esasperata attenzione ai moti della propria anima, il soggetto di Mann non nutre più alcuna speranza nella propria volontà e capacità di controllare il corso del proprio destino. Anche se la virulenza e la follia del nazismo verranno rappresentate e condannate soprattutto nel “Doctor Faustus”, i germi di quella malattia terribile dello spirito, prima che della politica tedesca, negli anni dell’ascesa di Hitler, già attecchiscono nel microcosmo isolato di Davos.

Questa malattia è ancora quella del soggetto smarrito e incapace di leggere il reale, malattia che parte dallo spirito e raggiunge il corpo. La tubercolosi, che divora i polmoni e toglie il respiro, è metafora di una malattia epocale che ha quasi cancellato dall’umanità ogni energia, bloccando i polmoni della sua vitalità e della sua forza. Nell’osservazione minuta e sfiancante della realtà esteriore e interiore, il protagonista Hans Castorp consuma tutto il tempo trascorso a Davos. Priva di agganci immediati con la realtà e le sue esigenze, l’intelligenza del giovane si esercita quotidianamente nell’osservazione e contemplazione dei fenomeni naturali, psicologici e patologici dei suoi compagni. Le visioni proposte dai due aspiranti mentori Settembrini e Naphta, ultimo sforzo teso a una concezione articolata e oggettiva dell’esistenza, crollano miseramente nel corso dell’opera. Rimane alla fine l’incognita del destino, rappresentata da Castorp che sceglie di scendere a valle per combattere al fronte della prima guerra mondiale. Struggente nel suo disperato sogno di forza e di vita, il giovane chiude il romanzo con la sua folle corsa nella discesa innevata che lo porta via da Davos, verso gli uomini della pianura che lavorano, combattono, vivono e muoiono.

Il suo è l’ultimo tentativo di appartenere all’umanità, sana, attiva, padrona di sé, di rientrare in una realtà misurabile e oggettiva. Ma qual è questa umanità, quale questa realtà? Gli uomini disperati al fronte, carne da macello, la realtà dell’odio fratricida, della volontà di potenza che tanti credevano avrebbe purificato il mondo dalla sua accidia e dai suoi tormenti interiori. Una sorta di esorcismo per scacciare i fantasmi sempre più numerosi, più ossessivi.

Per Mann questa fu la prima tappa in sordina del futuro furore germanico. Un furore sempre all’erta, nascosto oggi nei più diversi angoli del mondo, con nuove vittime, nuove malattie, del corpo e dello spirito, ma tutte accomunate dalla stessa disperazione e sfiducia dell’uomo che ne è contagiato.

Guardando tutto questo, divisi tra la tentazione di cedere e l’impulso a ribellarsi a tanta desolazione e violenza, noi uomini siamo troppo deboli in noi stessi per fronteggiare da soli tanto male. Perché al fondo di tutto, in fondo in fondo, “L’ultima questione — scriveva con spirito profetico Jaspers — è di sapere se dal fondo delle tenebre un essere può brillare”.

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