È lo spread fra le nuove nascite e le morti. Quel che permette all’Italia di andare avanti è il lavoro delle famiglie che mettono al mondo figli confidando nella Provvidenza

Lo spread che ci affossa non c’entra nulla con i titoli di Stato




Nella nostra storia di italiani ci sono stati dei momenti nei quali tutto sembrava perduto, a cominciare dalla speranza: momenti di lutto, devastazione, fame, paura, con eserciti stranieri nelle nostre terre, con i capi che avevano abdicato dalla loro funzione ed erano scappati. Basta pensare all’invasione napoleonica o al periodo conclusivo della Seconda Guerra Mondiale. Proprio in quei momenti il popolo italiano, da Nord a Sud, ha saputo prendere in mano il proprio destino, insorgendo contro i nemici e – tornato alla pace – passando in pochi anni dalle macerie alla ricostruzione. È riuscito a farlo perché era un popolo sano, costituito da famiglie che credevano in Dio. Nell’immediato Dopoguerra erano le famiglie dei nostri nonni, che ci hanno raccontato il passaggio dalla disperazione a una prospettiva di luce, fondata sul lavoro, sulla fatica e sulla fiducia nel domani.

Oggi viviamo un momento simile, per lo meno nella sua fase critica. I dati statistici attestano l’esistenza di uno spread più preoccupante del differenziale fra i titoli del debito pubblico italiano e tedesco: lo spread fra le nuove nascite e le morti. I demografi e gli economisti seri legano senza incertezze la crisi dell’Italia alla quantità decrescente di figli: nel 2014 sono nati meno della metà dei bambini che sono nati 50 prima, nel 1964. E se allora c’era il boom economico e oggi c’è la crisi dipende in larga parte da questa ragione! I morti superano i nuovi nati di oltre 90 mila unità: con uno spread così diventeremo ancora più vecchi e scompariremo come nazione. Non per l’intervento di truppe straniere, ma per le scelte che abbiamo operato nel mezzo secolo che abbiamo alle spalle.

Negli ultimi anni larga parte di coloro che hanno responsabilità di governo, o comunque istituzionali, mostrano singolare preoccupazione per ciò che va nella direzione opposta a una autentica ricostruzione nazionale: invece di puntare alla ripresa della popolazione e al rilancio della famiglia, appaiono ossessionati dal gender e da forme di unione strutturalmente sterili perché fra persone dello stesso sesso. Invece di pensare a come rendere meno complicato accogliere nuovi figli, si arrabattano per inserire ancora più capillarmente l’ideologia à la page; invece di curare l’“eccezione italiana”, operano per rendere l’Italia qualcosa di mezzo fra un angolo di Gardaland e uno stand di ipermercato. Prendono in considerazione la famiglia solo per tassarla, colpendo i beni – la casa in primis – più strettamente correlati alla vita familiare. Un neo-eletto “governatore” di una regione nella quale chi è affetto da patologia tumorale attende oltre un anno per una tac, nel discorso di insediamento ha posto fra le priorità la realizzazione della parità “di genere”. Sembra di stare su una nave che nella sala-macchine imbarca acqua, mentre chi sta in coperta è interessato solo al cicaleccio che accompagna lo stare distesi al sole; nel frattempo chi si spezza le ossa per gettare fuori l’acqua non viene neanche preso in considerazione, se non da parte di chi protesta perché la velocità è rallentata.

Quel che permette all’Italia di andare avanti è il lavoro delle famiglie che mettono al mondo figli confidando nella Provvidenza, che si rimboccano le maniche in tante attività private nonostante l’oppressione del fisco e della criminalità, che hanno ancora l’abitudine al risparmio, che dopo il lavoro si dedicano al volontariato. Il 20 giugno dalla sala macchine più d’uno di costoro, armato di buona volontà, di figli e passeggini, è salito in coperta: un milione di persone fatto di famiglie hanno certificato la propria esistenza e hanno affermato che d’ora in avanti, come gli insorgenti due secoli fa e come i nostri nonni dal 1945 in poi, non si rilasceranno più deleghe in bianco: anche perché, in assenza di capi politici in grado di interpretarne la voce, non c’è nessuno a cui delegare. È la vera novità sociale e politica del 2015.

di Alfredo Mantovano

Fonte: http://www.tempi.it

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