Rileggere il grande filosofo russo Solov’ëv per capire perché la sottomissione dell’Occidente non inizia con l’aggressione violenta jihadista. L’abbiamo voluta noi quando abbiamo rimosso Cristo dal centro della nostra vita

L’islam ci ha già conquistati




Si può cercare di capire quali siano i punti deboli del cristianesimo (meglio: dei cristiani) oggi, in un’epoca nella quale l’islam è temuto come veicolo di espansione politico-militare di popoli in movimento e come punto di riferimento di una nuova ideologia totalitaria, andando a rileggere un filosofo e teologo russo morto al suono di sirena del XIX secolo? Ci hanno provato Adriano Dell’Asta, docente universitario di lingua e letteratura russa che da poco ha esaurito il suo mandato come direttore dell’Istituto italiano di cultura presso l’ambasciata italiana a Mosca, e Giancarlo Cesana, professore di Igiene all’Università degli studi di Milano Bicocca e da poco ex presidente della Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, nel corso della serata dal titolo “Solov’ëv: l’islam e il problema cristiano”, ospitata il 15 giugno scorso dal Centro culturale francescano Rosetum di Milano.

Per una volta un incontro pubblico ha trattato l’argomento islam rinunciando a inseguire la cronaca, a posizionarsi fra allarmismo e buonismo, a mettere al centro del discorso il dilemma se il cristianesimo e con esso l’Occidente debbano dialogare o piuttosto difendersi. Ci si è interrogati invece su cosa deve fare il cristianesimo per non essere una brutta imitazione dell’islam, un islam minore, destinato ad essere sostituito dall’islam maggiore non per l’aggressività di quest’ultimo contrapposta alla debolezza morale dell’Occidente o per qualche altra ragione estrinseca, ma perché, come ha scritto Vladimir Solov’ëv riferendosi ai bizantini e come hanno ripetuto Dell’Asta e Cesana riferendosi ai cristiani di oggi, «hanno creduto che, per essere veramente cristiani, fosse sufficiente conservare i dogmi e i riti sacri dell’ortodossia senza preoccuparsi di cristianizzare la vita sociale e politica; hanno creduto che fosse cosa lecita e degna di lode confinare il cristianesimo nel tempio e abbandonare l’agone pubblico ai princìpi pagani».

Nella cultura popolare i bizantini sono ricordati come quelli che discutevano del sesso degli angeli mentre i turchi ponevano l’assedio finale a Costantinopoli, sono il simbolo di quanti, intrappolati nella loro autoreferenzialità, non si rendono conto del pericolo e si dedicano a lotte intestine prive di rilevanza mentre grandi sciagure si abbattono sulla loro comunità. La citazione non poteva non venir fuori in una serata su islam, cristianesimo e Solov’ëv, ma trasfigurata in una forma molto più sofisticata. I bizantini, dice il grande autore russo, hanno spianato la strada alla conquista islamica abbandonando il vero cristianesimo e imboccando la strada sbagliata di due eresie: l’iconoclastia (il rifiuto e la conseguente distruzione delle immagini sacre) e il monotelismo, cioè la dottrina secondo cui in Gesù Cristo convivono sì due nature, quella umana e quella divina, ma sussiste una sola volontà, quella divina.

La possibilità di riconoscerLo

E perché queste due eresie aprirebbero la strada alla dissoluzione del cristianesimo e alla sua sostituzione storica da parte dell’islam? Perché, come Solov’ëv scrive nel suo La Russia e la Chiesa universale, «l’una (quella dei monoteliti) negava indirettamente la libertà umana, mentre l’altra (quella degli iconoclasti) rifiutava implicitamente la fenomenalità divina. L’affermazione diretta ed esplicita di questi due errori costituì l’essenza religiosa dell’islam, che vede nell’uomo una forma finita senza alcuna libertà e in Dio una libertà infinita senza alcuna forma. Una volta che Dio e l’uomo siano stati così fissati ai due poli dell’esistenza, non vi è più alcun nesso fra loro, e ogni realizzazione discendente del divino al pari di ogni spiritualizzazione ascendente dell’umano resta del tutto esclusa; e la religione si riduce a un rapporto puramente esteriore tra il creatore onnipotente e la creatura che è privata di qualsiasi libertà e non deve altro al suo signore se non un semplice atto di devozione cieca (è questo il senso del termine arabo islam)».

L’islam, dunque, sarebbe l’affermazione di un Dio onnipotente, puro spirito che si fa conoscere attraverso comandi indiscutibili e imperscrutabili ai quali l’uomo, nella sua finitudine priva di libertà, quindi incapace di amore, può solo sottomettersi. Queste critiche all’islam assomigliano alle due citate da Benedetto XVI nel famoso e spesso frainteso discorso di Ratisbona: quella dell’imperatore bizantino Michele II Paleologo, che accusa Maometto di aver voluto imporre la nuova religione con la forza e quindi di non aver capito che «non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio», e quella dell’islamologo francese Roger Arnaldez che ha evidenziato come correnti importanti dell’islam si spingano «fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria».

Ma in quel discorso papa Ratzinger, come ha evidenziato Giancarlo Cesana nella sua introduzione dell’incontro, ha anche formulato una critica alla teologia cristiana che a partire dal tardo Medio Evo ha compiuto un errore simile a quello dei bizantini, cioè ha ricominciato a mettere in dubbio che Dio abbia una forma. Mentre i bizantini hanno relativizzato soprattutto l’incarnazione di Dio, i teologi medievali come Duns Scoto, poi la Riforma protestante e infine la teologia liberale hanno relativizzato la razionalità di Dio. In tutti e due i casi, si tratta di parziali negazioni del fatto che Dio abbia una forma che faciliti all’uomo il compito di riconoscerLo e di conoscerne la volontà.

I meriti di Maometto

Eppure chi volesse vedere in Solov’ëv un islamofobo ante litteram sbaglierebbe di grosso. Il grande pensatore russo in realtà è prodigo di lodi nei riguardi di Maometto, del quale in certi passaggi del libro Maometto. Vita e dottrina religiosa fa addirittura l’apologia. Lo difende dai moderni che lo accusano di non aver tenuto distinte religione e politica: «Ma dove esisteva a quei tempi (e anche molto più tardi) una chiara capacità di distinguere la religione dalla politica? Forse che non venivano confusi questi due interessi anche nell’attività degli imperatori bizantini, e nell’attività dei papi romani? Ancor meno possibile era, questa differenziazione, in una situazione barbarica della vita sociale quale era quella in cui si trovavano allora le tribù arabe». Lo difende pure dalle accuse di violenza e immoralità: «Sulla base dei testi del Corano citati, abbiamo visto quanto siano ingiuste anche le altre accuse rivolte a Maometto, le accuse di fanatismo, di intolleranza, di predicare la violenza in nome della religione. Parlando in generale, nel libro sacro dei musulmani non c’è una sola sentenza nella quale si potrebbe ravvisare una cosciente strumentalizzazione della religione da parte di Maometto. Se si prescinde da questa fondamentale accusa di principio, contro Maometto restano soltanto le passioni dei sensi cui cedette nella vecchiaia e un certo numero di omicidi politici, ispiratigli dallo spirito di vendetta».

Solov’ëv afferma che il profeta dell’islam si è comportato molto meglio di imperatori cristiani come Costantino, che fece mettere a morte sua moglie e suo figlio, e di Carlo Magno. Se è vero che Maometto si vendicò di una tribù ebraica che secondo lui aveva rotto i patti mettendo a morte 700 maschi della medesima e schiavizzandone le donne, il re dei franchi fece molto peggio, ordinando il massacro di 4.500 prigionieri sassoni che continuavano a praticare riti pagani dopo essersi formalmente convertiti al cristianesimo.

Ma soprattutto Solov’ëv giustifica il ruolo storico dell’islam: «Nel tradizionale racconto del viaggio notturno di Maometto a Gerusalemme» scrive, «si narra tra l’altro di come nella “casa dell’adorazione”, dopo la preghiera, vennero presentate al profeta tre coppe: una con dell’idromele, la seconda con del vino e la terza con del latte, e lui delle tre scelse l’ultima. Tra la sensualità pagana (l’idromele) e la spiritualità cristiana (il vino), l’islam è in effetti il salutare e sobrio latte: con i suoi dogmi alla portata di tutti e con i suoi comandamenti facilmente realizzabili esso alimenta popoli che sono stati chiamati a un’azione storica ma che non si sono ancora innalzati ai supremi ideali dell’umanità. Per gli arabi e per gli altri popoli che accolsero la religione di Maometto, essa doveva diventare quello che era stata la legge per gli ebrei e la filosofia per i greci: un gradino di passaggio dal naturalismo pagano a un’autentica cultura universale, una scuola di spiritualismo e di teismo in una forma pedagogica iniziale accessibile a questi popoli». Per cui il nostro scriveva nel 1896: «La religione di Maometto ha ancora un futuro, essa dovrà ancora, se non già svilupparsi, per lo meno diffondersi. I continui successi dell’islam presso popoli poco ricettivi nei confronti del cristianesimo – in India, in Cina e nell’Africa centrale – mostrano che il latte spirituale del Corano è ancora necessario all’umanità».

I cinque “senza” dei moderni

Qual è il limite dell’islam, allora, rispetto al cristianesimo? Secondo Solov’ëv «è l’assenza dell’ideale della perfezione umana o della perfetta unione dell’uomo con Dio: l’ideale dell’autentica divinoumanità. L’islam non esige dal credente un infinito perfezionamento, ma solo un atto di assoluta sottomissione a Dio. È evidente che anche dal punto di vista cristiano, senza un simile atto è impossibile per l’uomo raggiungere la perfezione; ma di per sé questo atto di sottomissione non costituisce ancora la perfezione. E invece la fede di Maometto pone la prima condizione di una autentica vita spirituale al posto di questa vita stessa. L’islam non dice agli uomini: siate perfetti come lo è il Padre vostro che sta nei cieli, cioè perfetti in tutto; esso richiede loro soltanto una generale sottomissione a Dio e l’osservanza nella propria vita naturale di quei limiti esteriori che sono stati stabiliti dai comandamenti divini. La religione resta soltanto il fondamento incrollabile e la cornice sempre identica dell’esistenza umana e non diventa mai invece il suo contenuto interiore, il suo senso e il suo fine».

«Dunque per Solov’ëv la superiorità del cristianesimo rispetto all’islam è nulla senza la conversione della persona, senza che Cristo sia messo effettivamente al centro della vita», commenta Dell’Asta. Per Cesana la superiorità è persa perché per i cristiani e per gli occidentali in genere Dio ha cessato di avere una forma e quindi di essere frequentabile, per cui appare molto più coerente ed efficace il Dio senza forma ma legalista dell’islam. «È lo sconcerto moderno di cui parla don Giussani in L’uomo e il suo destino: In cammino. I cinque “senza” dell’uomo moderno: Dio senza Cristo, Cristo senza Chiesa, Chiesa senza mondo, mondo senza io, io senza Dio. Noi ci mostriamo scandalizzati dell’assalto dell’islam politico al nostro mondo, ma dentro di noi siamo già islamici: non riteniamo più possibile che Dio abbia una forma alla quale la nostra libertà aderisce».

di Rodolfo Casadei

Fonte: http://www.tempi.it

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