È morta la maternità, il legame che dà inizio alla vita e alla storia umana. A decretarne la fine è stata la magistratura

L’era della post-famiglia




È morta la mamma. Anzi la maternità, il legame che dà inizio alla vita e alla storia umana.

A decretarne la fine è (o almeno ci prova) la sentenza della Corte d’appello di Trento riconoscendo la paternità di due bambini a una coppia di uomini che hanno avuto (cioè comprato) negli Usa due bambini con la pratica dell’utero in affitto. Finisce così un’antica vicenda, già all’origine della storia umana, che vede il bambino nascere dall’incontro dell’uomo e della donna, la madre e il padre. Non per niente il legislatore francese, che riconobbe il matrimonio omosessuale, nella stessa legge abolì anche i termini padre e madre, sostituendoli con due numeri: genitore uno e genitore due.

A qualcuno parve una stravaganza da burocrati che hanno più dimestichezza coi numeri che con l’alfabeto, ma invece no: era già l’annuncio della fine del padre e della madre. E il popolo francese lo capì subito, scendendo in piazza con le grandi Manif pour tous dove tutti, omosessuali compresi, compostamente ma molto energicamente protestarono rivendicando il diritto ad essere accolti nella vita dalla madre che ti genera. E non da uno o due signori che ti portano via alla donna da cui ti comprano.

Ma la cosa andò avanti. Si era aperto l’unico mercato che in una società declinante, infertile, sempre più priva di idee, di figli, e d’amore tiri veramente: quello della vita. Comprata, non più generata, perché quello ormai interessa molto meno. Come dicono i giudici e i giuristi che applaudono commentando con tono sprezzante verso le superstizioni residue del popolino. A cui contrappongono la loro «assoluta indifferenza verso le tecniche di procreazione cui si sia fatto ricorso all’estero da parte di entrambi i genitori nell’ambito di un progetto di genitorialità condivisa». Che al netto dal burocratese significa che tizi che vogliono un bambino vanno all’estero e lo comprano. E la mamma non c’è più.

Non per niente le femministe più attente avevano drizzato le antenne sin dall’inizio dei discorsi sull’utero in affitto, opponendosi con decisione in Italia e in Francia. La filosofa francese Sylvaine Agacinski parlava di «corpo a pezzi», notando che il baby business cercava ormai dovunque nel mondo dei corpi in affitto per il grande affare del nuovo millennio. E in Italia il «femminismo della differenza», vedeva all’orizzonte di queste tecniche, che lasciano così indifferenti i giudici di Trento, la fine del legame fondativo dell’umano: quello tra la madre e suo figlio. La madre qui non è più la fons vitae, l’origine della vita, ma un fornitore come un altro, scelto sui cataloghi secondo le precise leggi del mercato.

E il padre è un signore che ha, nell’incredibilmente, noiosamente gelido italiano dei giuristi: «un progetto di genitorialità condivisa» con un altro. Neppure Max Weber, che pure non era un ottimista, poteva prevedere che la «società burocratica» di cui lui vide la nascita, finisse in una tale distruzione di affetti e sentimenti.

Se poi ci si ricorda di quanto sia importante nella formazione della personalità del bimbo la comunicazione madre e figlio, dal concepimento ai primi anni dopo la nascita (come dimostrano psicoanalisi e infant observation), vengono i brividi. Come ha scritto (in Temporary Mothers) la giornalista femminista Marina Terragni: «Se lasciamo slegare al mercato anche il legame tra madre e figlio, il mondo muore».

di Claudio Risè

Fonte: http://www.ilgiornale.it

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