Il genetista don Roberto Colombo, ordinario della Facoltà di medicina presso l’Università Cattolica, commenta le motivazioni dell’ultima sentenza della Consulta sulla fecondazione assistita

Legge 40. «Così la Consulta espone il concepito in provetta alla soppressione sistematica»




Venerdì scorso la Corte Costituzionale ha depositato le motivazioni della sentenza del 14 maggio, con la quale ha smantellato un altro pezzo della legge 40/2004 sulla fecondazione assistita, autorizzando per la prima volta l’accesso alla procreazione assistita alle coppie sterili, la diagnosi pre-impianto (Dpi) e la selezione degli embrioni sani nel caso di coppie fertili, ma suscettibili di trasmettere al figlio una malattia ereditaria. La Consulta ha ritenuto che vi sia «un insuperabile aspetto di irragionevolezza nell’indiscriminato divieto» posto dalla legge 40 all’accesso alla fecondazione in vitro con Dpi, in quanto le coppie portatrici di un’anomalia genetica possono comunque avvalersi della diagnosi prenatale sull’embrione impiantato e sul feto per interrompere la gravidanza in caso di accertata patologia del nascituro. Secondo la legge 194 nei casi di anomalie o malformazioni fetali – è questo il fulcro dell’argomentazione della Corte – il figlio, indesiderato in quanto malato, «sarebbe comunque esposto all’aborto». Perché dunque far intraprendere alla donna una gravidanza gravata dall’incognita sulla salute del feto, quando è tecnicamente possibile individuare e non trasferire in utero gli embrioni malati? E quali coppie a rischio di trasmettere una malattia ai figli potranno ora avvalersi della fecondazione in vitro con Dpi? Tempi.it lo ha chiesto al genetista don Roberto Colombo, membro ordinario della Facoltà di medicina dell’Università Cattolica e direttore scientifico del Centro per lo studio delle malattie ereditarie rare presso l’Ospedale Niguarda di Milano.

Che differenza c’è fra l’aborto eugenetico contemplato dalla legge 40 e la selezione degli embrioni sani?

Occorre usare la parola “ragionevolezza” – un uso ragionevole della ragione – in modo corretto. Come ha ricordato la costituzionalista Marta Cartabia, «per quanto difficile sia afferrare ogni possibile risvolto del principio di ragionevolezza e per quanto arduo sia offrirne una definizione compiuta, ciò non di meno si può affermare, senza timore d’incorrere in errori, che esso contiene un invito al giudice a spalancare la ragione sulla realtà regolata dal diritto […], liberandosi dalle limitazioni della ragione astratta». Se si “spalanca la ragione sulla realtà” del concepito sottoposto a Dpi in quanto figlio di una coppia portatrice di un’anomalia genetica, ci si accorge che esso non è un “sottratto” al rischio di essere «comunque esposto all’aborto», come scrive la Consulta. Al contrario, mentre l’aborto eugenetico è un’eventualità, non tutte le coppie vi ricorrono, è proprio la selezione degli embrioni, conseguente alla Dpi, che espone il concepito in provetta alla soppressione sistematica e preordinata di circa un embrione su due se la malattia ereditabile è a trasmissione dominante, e di uno su quattro se è recessiva.

Si tratta quindi di una sentenza astratta?

Per il legislatore la “realtà della vita umana individuale” iniziava con il concepimento, sia nel corpo della donna che in laboratorio, e non con l’impianto in utero e la gravidanza. Per la Corte suprema, invece, ciò che conta è il “nascituro” (così si esprime la sentenza, sostituendo questo termine, adeguato nell’ambito di applicazione della legge 194 sull’aborto, a quello di “concepito”, proprio della legge 40 sulla fecondazione in vitro). La preoccupazione della Consulta è di non accordare al concepito un diritto alla protezione maggiore di quello concesso all’embrione impiantato e al feto, trascurando però la considerazione della “realtà propria” dell’embrione in vitro; quella di essere un embrione, un essere umano che deve svilupparsi nell’utero materno, prima ancora di essere, e per poter diventare, un “nascituro”.

Ora toccherà al Parlamento decidere per quali malattie ereditarie si potrà ricorrere alla diagnosi pre-impianto. Secondo alcuni, la Consulta così ridimensiona le conseguenze negative della sentenza. Che cosa ne pensa?

Non mi convince proprio. Come genetista che si occupa di malattie ereditarie, so che esse sono moltissime: oltre 6000 quelle causate da una mutazione in un singolo gene. Mi metto nei panni della commissione di esperti (genetisti e specialisti di diverse branche della clinica) che dovrà suggerire al legislatore quali coppie portatrici di quale difetto genetico trasmissibile al figlio saranno ammesse alla fecondazione in vitro con Dpi e selezione embrionale, e quali invece no. In base a quale criteri sceglieranno? Il primo è ovvio: quelle per cui è disponibile un test genetico affidabile e applicabile alla Dpi. Ma, proprio perché ovvio, non inciderà sulla pratica: se un test, idoneo per distinguere un embrione affetto dalla malattia di cui i genitori sono portatori da un embrione “sano”, è indisponibile, non si può neppure effettuare una Dpi. Attualmente i test disponibili sono oltre un migliaio, centinaia dei quali anche commercialmente, e il loro numero è in continua crescita. Per quali malattie ereditarie concederlo e per quali no? Supponiamo che il criterio sia epidemiologico: la frequenza della malattia nel nostro Paese o in Europa. Le prevalenti sì e le rare no. La maggior parte delle malattie ereditarie sono però rare o rarissime, ma non per questo mancano, complessivamente prese, dei portatori anche nelle nostre popolazioni. Come non pensare che queste “rare coppie portatrici” alla ricerca di un figlio sano – e le associazioni di malati che le rappresentano – rinunceranno a fare ricorso contro una norma che discrimina i genitori su basi puramente biologiche (il tipo di difetto genetico)? E su quali argomenti di pari opportunità di accesso alle risorse sanitarie potranno i giudici dar loro torto? Infine, se il criterio fosse in base alla mancanza di una efficace terapia per i nati con questi difetti ereditari, occorre ricordare che la “realtà” di una terapia risolutiva per una malattia genetica non è al momento disponibile che per pochissime di esse e non sempre, attualmente, con buone probabilità di successo. Quasi tutte, dunque, le patologie genetiche dovrebbero dare accesso alla Dpi, rendendo così vano il compito disciplinatorio del legislatore. Il problema, insomma. è a monte.

È la stessa legge 40?

Certo. Una volta che la vita umana è “dis-locata”, chiamata all’esistenza fuori dal luogo originario della suo venire al mondo, purtroppo tutto diventa possibile. Con questa sentenza, poi, è stata aperta un’altra falla nella legge 40 che assai difficilmente sarà contenibile nella impetuosa corsa verso il “figlio sano” ad ogni costo e l’eugenetica che ha reso possibile. Anche a quello di togliere la vita ad altri figli concepiti, pur sempre figli e non “scarti” di vita.

di Benedetta Frigerio

Fonte: http://www.tempi.it

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