“Le donne nella Grande Guerra”: mostra al Gopcevich




Presenze silenziose e dolcemente materne in interni borghesi color seppia, lavoratrici instancabili nelle fabbriche e nei magazzini, fanciulle precocemente cresciute a piedi nudi nei lavatoi, contadine piegate su campi ancora spogli, crocerossine che guardano l’obiettivo delle prime e rudimentali macchine fotografiche con un’espressione misteriosa e solenne quale si addice nei luoghi di dolore.

Sono alcuni dei tanti volti femminili che, dalla mostra fotografica “Le donne nella Grande Guerra” allestita a Palazzo Gopcevich (via Rossini 4), affondano i loro occhi impenetrabili da un passato inondato di sangue e violenza — gli anni della Grande Guerra, l’“inutile strage” — in un presente, il nostro, abituato a colori decisamente più sereni e consolatori. L’allestimento sarà visitabile fino al 10 maggio, con orario dal martedì alla domenica dalle 10 alle 18 e ingresso libero.

Dal 1914 al 1918 le donne si trovarono ad affrontare da sole la povertà, l’abbandono, la solitudine, la malattia e il lutto. Le più povere aumentarono le loro fatiche, le borghesi, più o meno agiate, dovettero a volte trovare un impiego o comunque prendere in mano le redini della famiglia occupandosi di questioni prima di esclusivo dominio del mondo maschile. Molte di loro si sacrificarono nelle corsie di ospedali improvvisati più simili a mattatoi che a luoghi di cura e speranza. Strette nelle loro candide divise, su cui campeggia il simbolo della croce, questi “angeli” riversano dalla coppa della loro carità e della loro sensibilità al mondo del dolore — prerogativa dell’anima femminile —, un effluvio costante di cure, attenzioni e solerzia. Anche un sorso d’acqua, un cuscino aggiustato sotto la nuca, un lenzuolo ben rimboccato, un panno bagnato sulla fronte e qualche sincera parola di conforto possono tanto su un corpo ferito e su un’anima sola di fronte al dolore e alla morte.

Struggenti i ritratti delle fanciulle, spesso scalze, macilente, con abiti logori che pendono sui loro corpi smagriti con una commovente e tenera piega sgraziata. Le braccia stese inerti lungo i fianchi, quasi un lampo di pudore negli occhi di fronte all’obiettivo così crudele nell’immortalarle in tutta la loro fragilità e miseria. Poche di queste ragazze, e dei bambini che spesso sono al loro fianco, hanno i piedi calzati: in alcune di loro si indovina un abito un tempo elegante, di trina e tulle, ma che il tempo ha consumato e ingoffito. L’idea, così acre per l’animo femminile, di essere viste così, in un’istantanea a cui non erano preparate, diffonde nella loro posa e nei loro sguardi una nota dimessa, quasi umiliata. Eppure sembrano anche incuriosite ed affascinate: sanno di essere viste, considerate, illuminate, per un attimo protagoniste anche loro della storia.

La donna borghese, solitamente dalle ampie e morbide forme serrate in abiti stretti dai colori severi, fissa l’obiettivo con uno sguardo ben diverso. La presenza del marito e dei figli nelle loro piccole divise da giornata di festa, con i capelli ben pettinati e la postura composta ed obbediente, conferiscono al suo sguardo una sorvegliata fierezza. Dal busto eretto e dal mento lievemente sollevato si indovina il tratto distintivo di gran parte delle donne della loro stessa classe sociale: la compostezza, il decoro, la solerzia nell’adempimento dei propri doveri quali la cura della prole, la buona conduzione della casa e il disbrigo puntuale e accurato di tutte le questione domestiche. Non vi è spazio per debolezze, pigrizia e scontento. Né vi è dispiaciuta forzatura nella loro espressione pacata e vigile. S’indovina piuttosto una sciolta naturalezza nel recitare bene il proprio ruolo muliebre, come si è sempre fatto.

Le lavoratrici, nelle fabbriche o nei campi, non possono mostrare la medesima consapevole compostezza e solennità di queste donne privilegiate rispetto a loro. Sono abituate a lavorare, anche quando il marito era a casa e non al fronte. Il peso da sostenere è ora raddoppiato, triplicato. Faticano nelle fabbriche, si impegnano nei magazzini e nei punti di distribuzione dei generi di prima necessità, quali uova, pane, un po’ di latte e di vino sfuso, qualche pugno di granaglie e di farina per cuocere la polenta, piatto forte del periodo, se si ha la buona ventura di disporne. Si capisce dai loro occhi che non dormono quasi mai perché si coricano tardi e devono levarsi prestissimo per provvedere alla famiglia spesso numerosa e interamente sulle loro spalle, specie se i figli sono ancora piccoli. Eppure non vi è scoramento e disperazione nei loro volti, o, più precisamente, forse sono abituate a non lasciar trapelare nulla, addirittura a non prendere in considerazione né il dolore fisico né le pene dell’anima.

Teatro di questa lunga notte di guerra, sangue e sconvolgimento di cielo e terra, oltre agli interni borghesi dall’aria sospesa e remota, sono soprattutto i magazzini abbandonati, le rivendite grigie e spoglie, le rovine e le macerie disseminate ovunque, come ossa consumate dalle ingiurie del tempo. E poi vaste campagne segnate da corsie di povere donne piegate per giornate intere a sarchiare, seminare, raccogliere. Ogni giorno devono lottare senza tregua, su un fronte con un’umanità impazzita e feroce, sull’altro con una natura spesso inclemente che con i frutti regala anche tante spine e ferite.

A noi oggi sembra impossibile riuscire a resistere ad una vita tanto incerta e dura, sentiamo che non avremmo mai la forza di affrontare neanche una sola di quelle giornate di fatica, di fame, di sfinimento, di angoscia continua. Ma, purtroppo, come disse il pittore Amedeo Modigliani salutando un amico in procinto di partire per il fronte: “È terribile, ma noi uomini ci abituiamo a tutto. Proprio a tutto!”

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