Le canzoni licenziose di Dario Fo




“Non aspettar San Giorgio che lui ci venga a liberare, non aspettar San Marco che lui ci venga a liberare con fanti e cannoni”.

 

Chi, secondo Dario Fo (1926-2016) ci potrà liberare ? E salvare da che cosa ? Sembrerebbero interrogativi intelligenti, a cui il Premio Nobel per la letteratura 1997 non ha saputo tuttavia seriamente rispondere, se non con scurrilità sconvenienti, come cantava in qualche suo spettacolo irriverente: “Chi può aiutarti, oppresso, è il tuo compagno stesso, è lui che ti potrà salvare, soltanto lui!”. Il fu Dario Fo, insieme con la compagna Franca Rame, non ha fatto che gridare ed ostentare il suo sfacciato ateismo, la sua appartenenza alla sinistra rivoluzionaria. Basterebbero solo alcuni titoli di sue canzoni nei suoi triviali spettacoli per toglierci ogni dubbio: “Bandiera rossa del partigiano”, “Quella sera cascava Pinelli”, “Chi tiene la testa bassa, il padrone gliela rompe”. Purtroppo il successo mondano di questo personaggio non fa che attestare quello che Antonio Gramsci chiamava “egemonia culturale di sinistra”. Se da una parte è stato osteggiato un vero umorista cattolico come Giovannino Guareschi (1908-1968), che aveva canzonato i trinariciuti e tutti coloro che versavano il cervello all’ammasso, dall’altra è stato osannato Dario Fo che offendeva, nel suo “Canto degli italioti”, tutti coloro che non collimavano con il suo pensiero: “Siam felici, siam contenti del cervello che teniamo, anche voi dovreste farlo, trapanatevi il cervello…”. In un’altra canzone di un suo osceno spettacolo, dal titolo: “Coro dei ribelli”, Dario Fo urlava queste parole: “Il vostro sacrificio, compagni, non è stato inutile. Noi continueremo a lottare, distruggeremo tutto quello che i padroni e i loro tirapiedi hanno inventato per incastrarci: le loro leggi, il loro esercito, i loro magistrati, i loro poliziotti, le loro scuole e i loro seminari”. Le canzoni licenziose di Dario Fo hanno sempre contenuto una violenza inaudita e uno sberleffo irriverente ed hanno contribuito a rivoluzionare il senso comune e religioso degli italiani. I suoi diretti attacchi al Pontefice Pio XII , nella Ballata dell’arcivescovo disceso in Roma, pur essendo pieni di inesattezze storiche e di livore anticlericale, hanno comunque fatto breccia nella testa di parecchie persone. Molti testi di sue canzoni sono state portate al successo da Enzo Jannacci (1936-2013) e, per la loro apparente semplicità e orecchiabilità, sono tuttora fischiettate e canticchiate da molti, anche cattolici. Al funerale laico di Dario Fo, arrivato fino in Piazza Duomo a Milano, c’era una banda di ottoni che ripeteva il “Bella ciao” e molte persone intervistate reiteravano : “Sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam”, strofa di Ho visto un re, resa celebre da Jannacci. Attivista del Soccorso Rosso Militante fin dal 1968 (movimento che aiutava gli operai nelle lotte di fabbrica fino al sostegno ai militanti della sinistra extraparlamentare), Dario Fo non è mai venuto meno a quella sua pittoresca visione anarchica, che l’ha fatto una specie di nume tutelare di molti rivoluzionari. Egli, a dire il vero, non ha mai sminuito la sua professione di ateismo, basti pensare ad un’altra sua canzone dal titolo e sottotitolo molto eloquenti: “La religione dei potenti (Lascia pur che dica Iddio)”. Enzo Jannacci, come menzionavamo, è stato un cantore di Dario Fo, come attesta ad esempio il brano Veronica e ancora altri brani su testi di Dario Fo: “L’Armando”, “La forza dell’amore”, “El portava i scarp del tennis” (in dialetto milanese). Cantando si impara con Dario Fo a discernere quella che può essere una graffiante satira sociale che, attraverso una canzone, stimoli una critica costruttiva, dalla carica eversiva contenuta purtroppo in tanti suoi pezzi. Ad esempio nella: “Canzone dei padri” Dario Fo non fa che liquidare tutto ciò che con i padri rappresenti la naturale autorità, il dovere verso i genitori, il rispetto verso i propri superiori e fin su fino al cielo, testimoniando un irriverente laicismo e un rancore contro ogni forma di religiosità. Cantando si impara a non sottovalutare la portata di questi spettacoli e a comprendere il carattere distruttivo dell’impegno socio-politico-culturale di Dario Fo.

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