La visione del tempo dei cristiani, secondo Hans Maier




Di lui si ricorda un libretto a quattro mani con l’allora cardinale Ratzinger su struttura, gerarchia, carisma e democrazia nella Chiesa, edito originariamente in tedesco, che tradotto anni fa ebbe una certa diffusione anche da noi. Poi di Hans Maier, che in Patria per decenni ha ricoperto la cattedra che fu di Romano Guardini, non si è saputo per la verità molto di più. Ultimamente, però, il Nostro è tornato alla ribalta per un saggio a tema, e poi una serie di interviste, su un aspetto particolarmente simbolico della secolarizzazione, ovvero il cambiamento della concezione cristiana del tempo: vale la pena di spenderci qui due parole. In effetti, a pensarci bene, come accaduto per il vocabolario del linguaggio pubblico, anche per la concezione del tempo soprattutto nell’ultimo secolo abbiamo assistito a diverse rivoluzioni. Quelle più note sono naturalmente quelle dei totalitarismi dei vari colori politici, ognuno dei quali – una volta andato al potere – ha cercato di sostituire il calendario cristiano con uno di regime, con tanto di feste neo-pagane istituite contro e in sostituzione delle tradizionali festività cristiane: per ciascuna delle dittature l’‘uomo nuovo’ sarebbe stato caratterizzato in effetti da nuove credenze e nuovi ideali che nulla avrebbero avuto a che fare con le antiche idee religiose. E’ questo un fenomeno indagato dai alcuni dei migliori studiosi accademici dei totalitarismi ma relativamente poco attenzionato – paradossalmente – dalle nostre parti come se la visione religiosa del tempo non fosse parte rilevante della vita pubblica in una società cristiana. Onestamente, poi, Maier fa notare comunque che da questo punto di vista i totalitarismi novecenteschi non s’inventavano granché in realtà essendo meri ‘seguaci’ della prima vera rivoluzione di massa dell’età moderna, quella francese, che tra i vari primati ‘vanta’ (si fa per dire) anche quello di aver tentato l’operazione blasfema del contro-calendario profano da opporre a quello cristiano, con episodi anche buffoneschi e bizzarri, per la verità, ma che non tolgono nulla al senso profondamente anticristiano dell’istituzione ufficiale (e dunque a suo modo ‘religiosa’) di una nuova visione del tempo e della storia. Così, August Comte da una parte e Friedrich Nietzsche dall’altra, qualche decennio più tardi troveranno un terreno culturale già pronto per le loro idee di progresso oltre-umano e super-umano. Come si vede, insomma, la questione ha dei risvolti importanti e tutt’altro che ‘folkloristici’ o ‘archeologici’: in un modo o nell’altro, il potere politico e la cultura alta hanno sempre dovuto porsi il problema del rapporto con il tempo e l’idea di tempo, tanto per influire sulla mentalità della società a cui si rivolgevano, tanto per plasmare i posteri. E oggi? Dopo il tempo delle grandi ideologie e la loro fine improvvisa post-‘89?

Potrebbe sembrare che il discorso si sia chiuso, apparentemente. Il calendario cristiano è sempre lì e il Cristianesimo – si pensa – svolge ancora un qualche ruolo sociale da questo punto di vista. Sì, ma fino a quando? In realtà dalle espressioni più colloquiali – ma ormai maggioritarie nel sentire comune – come ‘buon weekend’ o ‘buon fine-settimana’ anziché ‘buona Domenica’ fino al progressivo scomparire delle ‘vigilie’ dei tempi di festa con i loro tipici riti, sacri e non (dall’osservanza del digiuno all’abito buono nella scelta dell’abbigliamento), il significato cristiano del tempo è sempre meno sentito e dunque valorizzato. Paradossalmente, quello delle quattro stagioni, con i suoi cangianti ritmi metereologici, è ben più avvertito in un certo senso: un altro, piccolo, ma importante segno della secolarizzazione ‘morbida’ dei costumi che sta andando avanti. Maier queste cose le dice da accademico e da pensatore, naturalmente, ma come si vede in questo breve sommario delle idee i suoi spunti sono piuttosto immediati, diretti e comprensibili da chiunque. Soluzioni pronte e confezionate, al solito, non ce ne sono. A parte una, s’intende, quella sola che è poi l’unica sempre antica e nuova insieme, cioè la conversione personale. La persona che si converte è infatti quella più naturalmente sensibile alla prospettiva del tempo perché ‘scopre’ intuitivamente la dimensione dell’eternità e coglie subito, senza bisogno di complesse spiegazioni, la portata epocale di ogni discorso sulla base dell’adesione alla prima verità di fede: Gesù Cristo è il Signore della storia e di tutti i tempi, alfa e omega del cammino nel mondo dell’intera umanità, creatore, redentore e giudice che ricapitolerà in sé tutte le cose, per cui senza di Lui nessun calendario, di nessun tipo, a nessun livello, sarà mai – realmente – portatore di un significato ‘nuovo’. Dopotutto, alla fine, anche i Santi che giorno dopo giorno ci vengono dati come preziosi indicatori di direzione dalla Chiesa, e a cui guardiamo con devota ammirazione, non sono altro che dei convertiti al livello più eccelso che hanno capito, prima e molto meglio di altri, come il tempo della vita ci sia dato in concreto solo per conquistarsi il Paradiso che è in definitiva il vero tempo da godere dal momento che – letteralmente – ‘quel tempo’ sì non avrà mai fine.

 

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