La tragedia del Vajont nel libro di Mauro Corona




In un tempo lontano esisteva sui picchi montani della Carnia un villaggio molto speciale. Qui le nevi erano eterne, puntuali ad ogni stagione, in ogni mese diverse per la consistenza dei fiocchi, per il tocco, per il volteggio e per la resistenza al sole. Gli uomini che abitavano questo villaggio, educati per millenni dalla neve e dal suo ovattato silenzio, erano gli “uomini freddi”, dal cuore anch’esso di neve: dolce, cedevole, remissivo, rassegnato eppure forte, pronto ad ogni sacrificio, fatica e dolore.

Questo strano popolo è il protagonista dell’ultimo romanzo di Mauro Corona: “La voce degli uomini freddi” (Mondadori, 2013, pp. 235, euro 18,00), trasposizione in chiave onirica e fiabesca della tragedia del Vajont, di cui il 9 ottobre scorso ricorreva il 60° anniversario.

Corona, fedele al suo stile poetico forgiato dai climi aspri dei monti e dai segreti profondi delle foreste, non fa nomi, non indica le date né i luoghi: si sa solo che, dopo secoli di pace e di nascondimento felice, il paese degli uomini freddi viene distrutto da una montagna di fango e detriti scatenata da un’interruzione del loro torrente più importante. Il loro “campo liquido”, fonte di vita, di gioia e di freschezza gorgogliante nei vasti silenzi delle praterie di neve.

Gli uomini delle pianure, incalzati dalle loro macchine e dalla loro sete di potere, denaro e gloria, nei secoli si sono fatti sentire con guerre, strumenti di distruzione e foschi bagliori di morte. Ma erano solo echi fragorosi e lampi sinistri che squarciavano le nebbie. Non destavano paura né guastavano la serenità dei monti.

Alcuni montanari nel corso del tempo si sono lasciati catturare dal fascino sinistro di quel luccichio suadente e sono scesi dalle vette, perdendosi nelle sterminate città, nel loro caos e nei loro fragori distruttivi. Quasi nessuno ha poi fatto ritorno.

Dopo due valanghe che hanno distrutto il villaggio delle nevi perenni, ma non il popolo “freddo” che ha ogni volta ricostruito in posizioni più riparate la propria piccola patria, il tempo trascorre nella quiete, fino al giorno fatale in cui ormai nelle città il solo valore rimasto è quello dell’oro. Nel torrente rubato e deviato dal suo corso, per sfruttarne le acque vorticose onde trarne energia e ricchezza, è adombrata la tragedia del Vajont che spazza via la speranza, la pace, l’idillio della natura intatta. Gli uomini “freddi” spariscono, non rimangono che gli abitatori frenetici delle grandi città e le piatte distese delle metropoli fumose e inquinate, dove il silenzio non esiste più e l’aria è un acquitrino mortale.

Per la maggior parte del libro Corona indugia a raccontarci la vita straordinaria del villaggio innevato, con le sue feste, i suoi riti, la sua laboriosità instancabile, le sue ricchezze segrete. I cibi sono semplici e buoni, per lo più latte, miele ed erbe curative; anche le api sono bianche e il loro miele è come nettare divino; gli animali sono docili amici che condividono la vita degli uomini e la custodiscono; i bambini vengono al mondo senza piangere, perché lassù il dolore non si manifesta, né ci si lagna delle malattie o delle paure portate dal buio della notte.

In grotte nascoste su picchi inaccessibili è custodita la memoria di questo popolo. Ogni sera davanti al fuoco i montanari ravvivano con le loro voci trasognate ricordi millenari, perché gli avi continuino ad abitare con loro. I morti non se ne vanno mai, ma tutte le sere ritornano nelle loro case e parlano fitto fitto, in una lingua misteriosa, con i loro cari ancora viventi. La vita e la morte fanno parte di uno stesso eterno fluire su cui danzano madidi di neve i valori eterni dell’uomo puro, onesto, incontaminato: l’amore reciproco, la cura degli uni verso gli altri, il lavoro fatto con dedizione e passione, l’onestà e il rispetto per la natura.

Di notte, mentre nel buio sussurra la voce dolcissima dei “ninnananti” che versano il sonno negli occhi dei bimbi, il luccichio delle pietre preziose sepolte nelle rocce squarcia le ombre e il freddo. Queste pietre non hanno valore allo stesso modo che nelle città, ma solo perché sono belle ed ha senso possederle unicamente per questo: per il perfetto splendore, per la forma geometrica che pare riprodurre l’ordine e l’armonia delle costellazioni e delle galassie eternamente in viaggio verso l’infinito. E poi i boschi, protetti dalla morbida neve, ricchi di linfa e di resine portentose, profumati e possenti, carichi di saggezza e di anni.

Proprio in questi boschi un giovane dei monti scopre che la notte del 21 maggio tutti gli alberi del mondo diventano come arpe, violini e liuti che suonano la musica più melodiosa che orecchio umano possa sentire. Le sue note sono l’eco lontana della divina musica delle sfere e tutti gli strumenti musicali costruiti con il legno degli alberi durante questa notte magica emettono suoni ineguagliabili.

Eppure anche questo mondo, così lontano, protetto, puro e buono, finisce per essere afferrato, sconvolto e distrutto dalla malvagità e ignoranza degli uomini delle grandi città.

Ma qualcosa rimane ed è l’acqua del torrente rubato che comunque ritorna alla sua gente, come ebbe a profetizzare un vegliardo delle montagne: «L’acqua torna sempre, sfonda muri e montagne e passa». Nessun uomo è rimasto, ma la voce del torrente risuona ancora. Non rimane altro: «Il resto è niente, lassù non c’è più nulla. Eppure la neve cade ancora lassù, dove non c’è più nulla». Forse sono gli occhi dei padroni del mondo a credere che lassù tutto sia andato distrutto: la musica del torrente, sembra dirci Corona sospinto dal suo amore per gli uomini “freddi”, e la neve che continua a cadere sono forse le tracce di una speranza e di una bellezza che non possono morire. 

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