La rivoluzione dei costumi di Boncompagni




“Quando morirò l’unica cosa che mi mancherà sarà la musica classica”

 

Mi sono sempre chiesto come sia stato possibile che un conoscitore che apprezzava la musica classica come Gianni Boncompagni (1932-2017) sia stato capace di scrivere delle canzoni banali  come: “Tuca tuca”, “Tanti auguri” e molte altre. Credo che vada percorsa la strada della “rivoluzione dei costumi”, di cui Raffaella Carrà è stata icona di successo agli inizi degli anni ’70. In quel ballo sensuale (“Tuca tuca”) che accompagnava quel testo provocatoriamente eccitante sta tutta la rivoluzione sessuale e la carica eversiva del ’68. Del furore ideologico che aveva contraddistinto quel periodo sessantottesco e che aveva decretato la fine dell’autorità, del padre e della madre non rimanevano che rimasugli legati al corpo, dopo che alla salute e alla salvezza dell’anima non si era più voluto guardare.

Per questo motivo il corpo della soubrette televisiva traduceva la sterile sostanza di un’umanità che aveva perduto Dio e l’orizzonte morale legato alla Sua legge. L’anelito legittimo alla libertà, sganciato dall’ordine divino, lasciava sul campo un’umanità sconvolta, separata nell’unità sostanziale anima-corpo e senza alcun riferimento al trascendente, come lo stesso Boncompagni affermava: “Io sono sempre stato ateo e morirò ateo”. Giandomenico Boncompagni (in arte Gianni) ha davvero rivoluzionato la radio fin dagli albori degli anni ’60 con programmi come: “Bandiera gialla” e “Alto gradimento” in compagnia dell’intelligente amico Renzo Arbore e presentando personaggi e nomi con una fantasia e anarchia inedita nel panorama dell’intrattenimento popolare italiano. Quando nel 1964 vinse il concorso RAI per programmatore di musica leggera egli si preoccupò di diffondere il nuovo conclamato verbo “beat” che gli stessi Beatles di quegli anni irrequieti incarnavano nel loro successo internazionale.

Non va dimenticato che il conduttore radio nativo di Arezzo si era in precedenza diplomato all’Accademia svedese di grafica e fotografia. In Svezia si era sposato con un’aristocratica (che successivamente l’avrebbe lasciato) che le avrebbe dato tre figlie. Boncompagni quindi non era un “improvvisato” che aveva saputo cogliere nel segno l’opportunità di quei tempi, ma era un autentico interprete di quegli anni in cui stava compiendosi la “rivoluzione dei costumi”, erede di una rivoluzione culturale mancata. Nella lenta dissoluzione delle aspettative e nella delusione o disillusione vissuta già agli inizi degli anni ’70 si possono ascrivere brani volutamente commerciali con testi superficiali, seppur consacrati dal successo mondano. A questa deriva della portata rivoluzionaria vanno, a mio modo di vedere, collegate lanci di figure femminile (la già citata Carrà, con la quale lo stesso Boncompagni intrattenne una relazione sentimentale, Ambra Angiolini, Claudia Gerini, Antonella Elia e molte altre) che nella sensualità e avvenenza giocavano il proprio ruolo, soprattutto a livello di immagine televisiva.

L’irrequietezza creativa di Boncompagni ha accompagnato così il triste esito della fallimentare rivoluzione sessantottesca, che lo ha visto conduttore TV di programmi dai titoli eloquentemente banali: “Pronto, Raffaella?”, “Pronto, chi gioca?”, “Non è la RAI”. Cantando si impara con il paroliere Boncompagni che nei vizi della superbia e della lussuria (i due germi di ogni sovvertimento) non si può sperare alcunché di fruttuoso. Cantando si impara che la frivolezza dei costumi spesso arriva dopo una creatività intellettuale ed artistica esasperata nell’inseguire nuovi format, nuovi successi, nuove mode. Anche i nipoti hanno attestato drammaticamente il vuoto di senso religioso al funerale (ateo) dello zio Gianni Boncompagni con queste testuali parole: “Solo tu potevi rubare la scena a Cristo…”. Nel giorno di Pasqua se n’era andato infatti Boncompagni, ma il paragone offerto dai parenti è stato irriverente. Nell’anima atea della rivoluzione sessuale e dei costumi si è spenta la figura emblematica di un suo cantore.

 

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