La Pasqua dei cristiani




Uno dei termometri più affidabili per misurare la temperatura spirituale di un popolo è la presenza con cui questo vive i tempi forti del candario cristiano e, avvicinandoci alla Pasqua, non possiamo non notare la sostanziale differenza che – non da oggi – si riscontra tra l’Occidente un tempo culla di Santi e l’Europa centro-orientale, in particolare in Paesi come la Croazia e la Polonia. Se siete mai passati di lì in occasione del Triduo Santo, infatti, non avrete potuto ignorare il fatto che la Pasqua da quelle parti è ancora un evento pubblico che impregna largamente il vissuto della comunità civile. Per la verità, qualcosa di diverso si avverte fin dalla Quaresima, da noi oramai diventata un tempo come un altro, socialmente parlando, in cui al di fuori delle chiese la vita scorre praticamente uguale a prima, né più né meno. E’ Quaresima ma per come vive la gran parte della città potrebbe essere pure estate, carnevale o capodanno tanto la differenza è nessuna. Non dall’altra parte dell’Adriatico, o della Mitteleuropa, invece, dove – fatte salve le solite eccezioni per le grandi città come Zagabria o Varsavia – la Quaresima la si vede ancora nelle celebrazioni particolarmente partecipate e nelle Vie Crucis che passano per le strade e sulle piazze, con una certa partecipazione, anche giovanile. La Settimana Santa, poi, è vissuta dall’inizio alla fine in un modo che più visibile non potrebbe essere: alcuni negozi chiudono, altri dimezzano gli orari e lo straniero che passa di lì avverte fin da subito qualcosa di diverso. Fosse pure un marziano, percepisce che sta accadendo qualcosa. C’è un atmosfera sensibilmente diversa e, in alcune ore, cala persino il silenzio, il grande rimosso della modernità neopagana. Al confronto con le nostre esperienze più latine, comunque, la differenza si avverte eccome. Ormai in certi posti per sapere che siamo a Pasqua devi entrare proprio in una chiesa durante qualche celebrazione, altrimenti il pensiero non ti sfiorerebbe mai. Nulla di quello che c’è intorno all’apparenza potrebbe infatti far pensare al nostro visitatore straniero che quella stessa comunità stia celebrando la Passione, Morte e Risurrezione nientemeno che del suo Creatore e Redentore. Le partite di calcio continuano come nulla fosse come pure gli intrattenimenti ludici e le feste in discoteca o al pub: la voglia di divertirsi (che ovviamente non è un male, in sé) è palpabile ovunque. Col fatto poi che diversamente dal Natale, dove i Presepi e le Natività anche itineranti disseminati in vari luoghi pubblici offrono almeno un ricordo remoto del senso della festa, a Pasqua non si usa invece rappresentare alcunchè almeno a livello di composizioni, la battaglia nella nostra società delle immagini sembra persa già in partenza. Eppure, siamo convinti che la nuova evangelizzazione ricominci anche – se non soprattutto – da lì. Se non si rievangelizza il tempo pasquale in quanto tale, se cioè le nostre società non torneranno a percepire l’unicità straordinaria e irripetibile di questi giorni di Grazia, qualunque altro tipo di iniziativa – per quanto lodevole – lascerà il tempo che trova. Detto in parole povere: è ora, a Pasqua, che si vedono i cristiani perchè – come ripete spesso un celebre predicatore – a nascere (nel senso di dare la vita fisicamente) siamo capaci tutti ma per risorgere e avere la vita eterna ci vuole Gesù Cristo.

D’altra parte si sta ripetendo qui – se vogliamo – la situazione degli inizi della vita della Chiesa dove i primi cristiani si trovavano a dover evangelizzare un contesto totalmente estraneo, se non proprio avverso. Più recentemente, riflettendo sull’apostasia dei nostri Paesi di antica tradizione Paolo VI aveva pure parlato dei cristiani come di un “piccolo gregge” destinato forse a diminuire ulteriormente col tempo per le prove che l’attendono mentre Benedetto XVI quando faceva riferimento alle “minoranze creative” che cambiano la storia intendeva riferirsi proprio al fatto che – anche se numericamente in minoranza – i cristiani possono comunque incidere, e persino orientare, il corso delle grandi vicende della storia. In ogni caso, nulla è già deciso e nulla già perduto. I casi della Polonia e della Croazia, poi, pur con i loro rispettivi limiti, ci ricordano inoltre che anche oggi nell’epoca della liquidità delle relazioni e della frantumazione di ogni riferimento a livello comunitario è possibile comunque tenere salde le proprie radici e la propria identità. Naturalmente bisogna tenere conto anche del contesto locale per cui in quei Paesi la fede – paradossalmente – è stata rinvigorita proprio dalla recentissima persecuzione comunista e dagli esempi di eroiche  testimonianze fornite in quegli anni da singoli laici, famiglie, sacerdoti, vescovi e religiosi. Tuttavia, anche noi a ben vedere abbiamo qualcosa a cui poter guardare con compiacimento: dopotutto fu proprio il Papa venuto dall’Est, Giovanni Paolo II, a definire il nostro Paese come “l’eccezione italiana” in ragione dei non pochi elementi di vivacità del nostro tessuto popolare (dall’attaccamento alla famiglia ai legami con la propria terra) ancora non del tutto indebolito dai virus del relativismo dominante. Da quando lo disse, certo, molte cose sono cambiate – anche da noi – ma tante altre si sono conservate nonostante tutto e resistono inaspettatamente. Per quanto piccolo, ci pare un punto fermo, una speranza e anche un auspicio per il futuro da cui ripartire, come comunità di credenti e come popolo, fin dalla prossima Pasqua. Auguri a tutti.

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