La natura nell’arte




È difficile oggi ritrovare, anche solo per pochi attimi, l’attitudine alla contemplazione meditativa della natura propria agli antichi. Se dovessimo riassumere in una frase il significato di questa perdita, molto più grave di quanto comunemente si creda, si potrebbe dire che l’uomo ha smarrito il senso della meraviglia e che la natura, privata dello sguardo umano che la colma di echi e di risonanze significative, è stata spogliata della sua aura sacra. Questo decadimento coinvolge tutte le sfere dell’esistenza: l’azione, il lavoro, la quotidianità, il pensiero, la cultura e l’arte.

Con l’arrivo della primavera, che segna il passaggio dal sonno dell’autunno e dell’inverno al risveglio di tutta la natura, vediamo moltiplicarsi nella nostra città iniziative legate allo scenario naturale che ci fa da cornice. Visite guidate a boschi, parchi, giardini, orti botanici, nonché eventi culturali, come la rassegna “In primavera a Trieste” che avrà inizio venerdì 8 aprile e che ha in calendario una serie di visite guidate gratuite a una selezione di dipinti della Collezione d’Arte della Fondazione CRTrieste. Motivo conduttore: la natura.

Nel momento in cui il paesaggio è entrato nei quadri come soggetto autonomo e isolato, l’arte ha iniziato il suo percorso di spogliazione dall’aura sacrale. Alcuni critici vedono nella “Tempesta” di Giorgione il confine che segna il passaggio dall’arte tradizionale — legata alla cultura ebraico-cristiana e distinta dalla centralità della figura umana sempre inserita insieme al paesaggio nella storia sacra —, all’arte moderna che poco a poco esclude il religioso e lo spirituale dai suoi orizzonti. Ne esce un’arte incentrata su soggetti profani e che esercita le proprie potenzialità espressive sul ritratto e sul paesaggio colti nella loro individualità autonoma. Gli scenari naturali dell’arte precedente erano sempre inseriti nella narrazione di un episodio della storia sacra, come fondali ammalianti che rendevano partecipe tutto il creato della storia della salvezza e lo ponevano con reverente maestria sotto la signoria del suo Creatore. Viveva ancora l’adagio sapienziale: «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore» (Sap 13,5).

Con la dissoluzione del mondo medioevale e della sua unità fondata sul comune ed esclusivo riferimento alla fede, anche l’arte, come tutta la cultura, recide passo dopo passo il legame con il divino e si ripiega in un orizzonte puramente mondano. Nascono capolavori, è fuor di dubbio. Talento, ispirazione, maestria tecnica, raffinatezza formale, intuizione sicura: i doni misteriosi dell’artista perdurano, ma poco a poco la loro sostanza si impoverisce fino a svanire in vuoti esercizi retorici studiati proprio per non dire volutamente più nulla. Questo logorio interno ha finito nei suoi esiti più recenti per dissanguare anche le facoltà espressive, al punto che non ci sembra molto remota l’ipotesi di una loro prossima totale estinzione — una sorte purtroppo condivisa da tutti gli altri linguaggi, scarnificati e degradati dalla povertà del pensiero

Il “disincanto” del mondo è oggi una struttura profonda, e ovunque diffusa, di organizzazione del reale e di percezione umana delle cose. La natura è diventata un corpo a sé che gli scienziati dissezionano e studiano come materiale da laboratorio da cui trarre le leggi regolatrici del cosmo. L’emozione del conoscere attraverso lo stupore cede il passo alla razionalità freddamente indagatrice. Si cerca un’altra forma di conoscenza i cui fini sono il dominare e l’accrescere utili e profitti. Su due binari paralleli corrono la celebrazione dei traguardi sempre nuovi della scienza e l’anelito, spesso sconsolato, a un nuovo incantamento del mondo che rivesta le cose di un manto sacrale! I nudi fenomeni conclusi in se stessi a cui si riducono i diversi aspetti della realtà ci parlano una lingua arida e incolore, improntata al teorema geometrico e ai segni dell’algebra. La poesia muore ogni giorno e dietro a lei si inabissa la bellezza che consacra l’universo e che rende attraente e degna la vita stessa.

Proprio nel cambiamento della percezione del creato si misura la rivoluzione tragica della modernità. Prendendo una metafora dal mondo dell’arte, il paesaggio è andato declinando in una natura morta di fiori appassiti dentro vasi screpolati, di frutti che marciscono in canestri sfaldati ove crisalidi tristi finiscono il loro breve volo. Frammenti di realtà trascinati senza uno scopo e senza una meta dalla forza oscura e irrazionale di una vita senza fondamento e senza perché. Apparizioni effimere di lacerti naufraghi che compaiono e scompaiono senza lasciare traccia. Chiusi in città divoratrici di boschi, valli e prati, appena svegli vediamo solo i muri spessi e grigi delle altre case. Tra i tetti ogni tanto si scorge qualche ramo frondoso che ci sorprende per la sua resistenza e la sua tenacia nel fiorire anche in mezzo al cemento e all’immondizia. Il volo di qualche uccello in cattività su grondaie traballanti e tegole malferme ci fa sobbalzare un poco il cuore. Ma è un attimo e il grigio torna a stendere il suo velo sullo smalto squillante delle cose.

Separati dalla natura, con cui andiamo ad incontrarci sempre più raramente nei giorni di festa per prendere un po’ di aria e ricrearci, abbiamo perso la capacità di leggerla e capirla. Non è stato così un tempo, quando il creato era simile a una pergamena stesa tra cielo e terra e ogni fenomeno, ogni creatura, pianta o animale, ogni stella e ogni raggio di sole, era sentito come una sillaba della Parola che tutto ha creato. L’uomo biblico guardava al cosmo conoscendo la lingua originaria che gli faceva capire il senso scritto nelle cose. Tutta la letteratura sapienziale è attraversata dal fiume carsico della lode. Un cantico delle creature che sgorga dalla pioggia, dalla neve, dalla brina, dalle tempeste, dal fragore dei tuoni, dal cielo e dal firmamento, dai cedri e dagli issopi, dalla mirra e dall’incenso, dagli animali selvatici e domestici fino ai mostri primordiali degli abissi marini, dai metalli come l’oro e dalle pietre scintillanti come il diaspro, l’elettro e il rubino, lo zaffiro e lo smeraldo, tutti convocati in un ideale coro per levare il loro canto di ringraziamento al Creatore. Il cosmo è una cattedrale di simboli che cela dietro ogni paramento, colonna e cupola un altare dedicato all’Altissimo.

L’occhio che sa vedere l’ordito sottile e magnifico che lega il creato in un disegno intelligente e bellissimo riesce ad avvertire tra le pagine del grande libro il fruscio delle dita di Dio che ricamano l’universo con amorevole cura. Questa visione l’abbiamo perduta. I nostri sensi assopiti e pigri non se ne sono quasi accorti e l’impoverimento del reale è divenuto per noi un immodificabile stato di natura. Come lamentavano i primi inquieti scrittori della decadenza, siamo nati troppo tardi, quando il vasto sussurrante bosco sacro era già stato raso al suolo lasciando solo un immenso cratere bruciato. Quel cratere è per noi non ciò che resta di qualcosa di bello e di buono che è stato un tempo e che potrebbe tornare, ma la nuda verità delle cose che gli illusi e creduli uomini del passato hanno solo contraffatto e nascosto sotto un folle intrico di piante inutili e infruttuose. Una volta sradicati questi alberi ormai giudicati inservibili, tutto il creato è stato trasformato in un vivaio di beni, in terra di conquista, in macchina da studiare e manovrare. Al limite, se ci rimane un qualche desiderio sobrio e naturale, in un teatro muto dei nostri rari momenti di ozio. Il creato è un corpo sezionato e violato, che non canta più né celebra più la bellezza ricevuta in dono.

Nella ferita profonda che l’ha strappata al suo creatore, la natura a volte indossa una maschera maligna e si manifesta sotto parvenza di incubo, spettro o demone. Questo aspetto oscuro e minaccioso è stato incarnato con genio altissimo e terribile nelle masse tenebrose e nei gorghi dai colori funerei che inghiottono “L’Urlo” di Munch: una natura estranea, nemica, frutto del caso e del caos, una natura senza Dio, senza volto, senza orizzonti di luce. Come le “macchine celibi” di Marcel Duchamp, strutture vertiginose composte di innumerevoli parti meccaniche che sembrano vivere di vita propria crescendo su se stesse fino a debordare. Macchine sofisticate nel loro incastro, raffinate nell’esecuzione di un insieme così ricco e articolato, ma buone a nulla. Concepite e costruite proprio per non servire a nulla, metafore di una realtà che si moltiplica e si accresce senza più un senso, un fine, una logica. Macchine che richiedono un lungo lavoro, inventiva e anche conoscenza, ma sono costruite apposta per non funzionare.

Tutto ciò che si costruisce e si crea al di fuori del legame spirituale con l’Altro è come queste macchine a fondo cieco. Ingegnose, ma prive di senso. Questo senso non è scomparso né è fuggito. È sempre tra di noi e in noi, come un ospite discreto e paziente che aspetta alla porta un nostro cenno di benvenuto e di amicizia, recandoci in dono il grande codice dimenticato. Il codice della nostra civiltà, la pergamena stesa tra cielo e terra che l’uomo moderno ha riavvolto e nascosto. In essa vive incorrotta la saggezza dei tempi. Ha solo bisogno di mani che la srotolino di nuovo, di occhi sapienti e umili che la leggano e di cuori liberi che la lodino ancora.

 

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