La natura consolatrice di Zoran Mušič




Nell’arte figurativa e nella poesia del Novecento scorre sinuosa e profonda una corrente spirituale ed estetica che elegge la semplicità e l’essenzialità a cifra nevralgica di una vasta produzione artistica inedita nelle forme e nei contenuti rispetto agli stilemi della tradizione. Se sul versante poetico la massima realizzazione di questa corrente può essere individuata nella poesia ermetica (Montale e Ungaretti in primis), sul versante della pittura un insuperabile maestro della scrittura segnica e cromatica improntata ad un’essenzialità estrema è sicuramente Zoran Mušič (1909-2005). Il suo nome recentemente è ritornato alla ribalta in una pièce allestita al Teatro Miela: “Il silenzio dei Campi in Fiore. Pensieri dall’oblio di Zoran Mušič” di Marko Sosič, su un progetto a cura di Laura Forcessini. L’opera messa in scena è un monologo recitato da Marco Puntin che veste i panni dell’artista ormai avanzato negli anni e alle prese con le ombre del proprio passato. Tra ricordi, esami di coscienza, riflessioni sul senso della vita, sulla verità e la menzogna, sul male e le sue ramificazioni nella storia, l’artista ripercorre gran parte del secolo breve osservato attraverso il filtro di un’arte spesso non compresa e dolorosamente affinata. A fine settembre 2016, negli spazi espositivi della “Fondazione Gabriele e Anna Braglia” a Lugano, sarà inaugurata una mostra dedicata a Mušič, di cui il prossimo anno ricorrerà il 100° della nascita.
La figura di questo artista, a noi vicino sia geograficamente in quanto nato a Gorizia nel 1909 sia per la sua vocazione spirituale ed estetica tesa a quell’asciuttezza e nudità dell’espressione connaturate all’anima nordica, è esemplare di tutta un’area della cultura novecentesca le cui inquietudini e domande risuonano, ulteriormente potenziate, ancora oggi. Formatosi all’Accademia di Zagabria, Mušič negli anni del suo apprendistato viaggiò moltissimo raccogliendo impressioni e immagini decisive per la sua ispirazione. Le contrade da lui visitate gli offrirono via via i fotogrammi per la sua pittura che fu sempre evocazione dell’anima dei luoghi e radiografia del senso dell’esistere attraverso il paesaggio, specie in un tempo funesto e buio come quello del primo Novecento deflagrato da ben due conflitti mondiali.
Negli anni ’30 e agli inizi degli anni ’40 Mušič spazia dalle distese petrose del Carso e dalle terre friulane, venete e soprattutto dalmate — la Dalmazia fu la patria della sua infanzia nei periodi delle vacanze con la famiglia e più tardi meta continua dei suoi vagabondaggi con la memoria —, alle contrade dell’Europa centrale con città come Vienna e Praga, fino alla Spagna ove si reca nel 1935 per assaporare le terre selvagge e romantiche della Castiglia e conoscere da vicino la pittura visionaria di Goya, Greco e Velasquez. Intanto continua a dipingere, cimentandosi in rievocazioni delle terre dalmate e dei loro poveri e umili abitatori. Nel 1943 si stabilisce a Venezia dove viene profondamente impressionato dall’incrocio di culture, spiritualità e linguaggi artistici dispiegati in ogni angolo della splendida città lagunare, frutto di un incontro tra civiltà e culture disparate. A Venezia respira l’oro, la magnificenza, la preziosità e la ricchezza della cultura bizantina, studiando i linguaggi del mosaico, delle icone, delle liturgie serbe e orientali e dei rosari sfolgoranti. La sua ispirazione si arricchisce di nuove sollecitazioni. Ma il suo apprendistato si interrompe con l’arresto da parte dei tedeschi e la sua deportazione a Dachau, non tanto a causa di un suo preciso schieramento politico o di un’adesione programmatica e concreta alla Resistenza, ma per la sua stessa schietta natura di uomo libero e orientato al bene, allergico ad ogni menzogna e ad ogni forma di violenza. La deportazione è una discesa agli Inferi, uno sprofondare di giorno in giorno nella terra dei morti ove tutto è putrefazione, sangue, spasmo, sofferenza, atrocità. Qui il paesaggio si riduce mostruosamente a colline allucinate di cadaveri ammassati ovunque, come mostrano i disegni che l’artista riuscì a fare di nascosto.
Dopo essere stato liberato, ritorna a Venezia nel cui splendore si tuffa come a cercare un bagno rigeneratore di vita, di colore e di luce risanatrice. Nascono le vedute e i paesaggi lagunari. Durante un viaggio a Roma ha modo di contemplare le splendide distese delle colline e dei campi della Toscana e dell’Umbria, in particolare le colline senesi da lui rappresentate in un’aura incantata e fiabesca che ricorda Simone Martini e che evoca una dimensione fuori dal tempo ove il male non ha accesso e ove tutto è quiete e silenzio. La vincita del “Premio Parigi” a Cortina d’Ampezzo è il primo vero riconoscimento al valore della sua arte che la critica e il pubblico ancora stentano a valorizzare. Nel 1952 si sposta a Parigi e si dedica a una vasta serie di dipinti in cui ritornano le visioni dalmate con le donne nei loro tipici costumi e le inesauste variazioni del soggetto iconografico dei cavallini e degli asinelli, emblemi di una terra povera eppure ricchissima nella bellezza catturata dall’occhio dell’artista che sa trasformare un nudo scorcio di paesaggio brullo e spoglio in una veduta preziosa come un tappeto, un mosaico, un broccato o un mantello regale. Negli anni ’60 l’ispirazione si dilata ad abbracciare l’intreccio di fiori e di verdi dei prati cortinesi anch’essi rappresentati, pur nella lineare asciuttezza stenografica del tratto e nei toni pastellati dei colori, come stoffe trapunte d’oro e polvere di gemme. Alla fine degli anni ’60 alle visioni solari dei prati succedono i tormentati Appennini con le loro rocce nude e scabre che evocano desolati ritorni di ricordi amari, quegli stessi ricordi che negli anni ’70 gli ispireranno la mostra “Noi non siamo gli ultimi” alla “Galerie de France”, serie ossessiva di corpi dilaniati, ammucchiati, gettati come animali dentro casse di legno, impiccati e torturati, con le bocche spalancate in un grido muto di scandalo e orrore, gli occhi infossati e già inghiottiti dal gorgo della morte. Gli spettri di un passato indelebile ritornano, in modo crudissimo e straordinariamente veritiero. Il male puro si concentra nelle carni senza vita di quei corpi suppliziati, un male che, come recita il titolo della mostra, non può mai essere debellato una volta per sempre dalla storia. Cambiano le maschere, ma il volto rimane. Nessun carnefice sarà mai l’ultimo.
La pittura di quest’artista ha segnato profondamente l’arte del Novecento per la sua capacità di trasformare i paesaggi e le vedute in visioni interiori continuamente nutrite dalla memoria. L’esigenza di asciuttezza del disegno e la scelta di colori delicati e soffusi come l’ocra, il malva, il rosa antico e il dorato nascono da una stretta identificazione con il carattere schivo e appartato di Mušič, uomo misurato nella parola e nel gesto, orientato alla ricerca dell’equilibrio e della verità delle cose. L’insistenza su determinati motivi, come i cavallini dalmati e la serie delle nasse, studiati e riproposti in tante minime varianti, nasce da uno scavo oltre la superficie delle cose alla ricerca di quel quid segreto che anche nella povertà e semplicità dell’apparenza le rende uniche, ricche e preziose. Niente va perduto, neanche un granello di polvere, nella pittura di Music, collezionista paziente di istantanee catturate e fissate per sempre nella loro stessa fugacità commista con l’eterno. L’occhio ferito dell’uomo travagliato da eventi terribili cerca quasi riposo nella natura e, nell’atto stesso di rispettarne la misura reale, ne distilla la poesia segreta che è sempre consolatrice di affanni. Così l’atto stesso del dipingere diventa atto liturgico che concilia l’anima del pittore con l’elemento divino. Il sacro, senza mai abbandonare il piano di partenza della natura, traluce nello sfolgorio di quei suoi cavallini dai colori irreali e fiabeschi, negli arazzi composti dal manto delle colline senesi, nei grani d’oro e ambra delle nasse trasfigurate in rosari e in collane. Dopo l’immersione nella sfera del tremendo in cui la terra dorata delle sue vedute dalmate e senesi e dei suoi giardini montani decade in un inferno popolato di cadaveri ancora contorti nello spasmo della sofferenza, l’artista trova anche in una semplice rete per pescare un piccolo capolavoro di oreficeria. Di questo tuttora abbiamo bisogno: di uno sguardo consapevole dell’abisso, ma abbastanza forte da vincerne la demoniaca gravità, per ritornare in superficie dove la natura con i suoi animali, i suoi fiori, i suoi prati e le sue montagne, ritrova la propria prospettiva autentica nella bellezza. Procedendo sempre in punta di piedi, poco a poco, tra lunghe contemplazioni e dialoghi silenziosi con le mute cose, al confine da cui si diramano il sentiero sempre temibile del tempo terreno e la via dell’infinito ove giocano eternamente i cavallini favolosi della terra avita.

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