La lotta col demone. A 90 anni da “La coscienza di Zeno”




Lo scrittore triestino Italo Svevo (1861-1928) iniziò a scrivere “La coscienza di Zeno” esattamente 90 anni fa. Dopo lo scarso successo dei suoi due primi romanzi “Una vita” (1892) e “Senilità” (1898), Svevo rimase in una sorta di stato di gestazione durato più di vent’anni. Durante questo periodo egli accolse, elaborò e portò a personale maturazione le influenze culturali delle sue prime prove, immettendone il potenziale conoscitivo e le venature letterarie nell’alveo della nascente psicoanalisi. La nostra città infatti, grazie alla presenza ispiratrice dello psicoanalista triestino Edoardo Weiss (1889-1970), conobbe prima che nelle altre città d’Italia la nuova scienza dell’inconscio messa a punto da Sigmund Freud.

Fu, questo periodo, una stagione molto ricca e vitale della nostra cultura e della nostra letteratura che, grazie a questo apporto del tutto rivoluzionario, affinarono i loro strumenti di indagine e di conoscenza delle oscure meccaniche della vita e dell’uomo.

Lasciando da parte gli aspetti discutibili di questa scienza del profondo – quali il meccanicismo, il materialismo e l’assenza di ogni riferimento alla connaturata trascendenza dell’uomo -, non si può non riconoscerle il pregio di aver rotto i sigilli dei regni inferi dell’anima, terra di istinti e di pulsioni oscure e minacciose.

Svevo, con la forza chiarificatrice e pacificante della sua ironia, riesce a svolgere i grovigli interiori del suo alter ego Zeno Cosini conciliando la lucida auscultazione dell’inconscio con la razionalità ordinatrice della mente. L’incontro tra “inconscio” (regni sotterranei della psiche) e conscio (la parte lucida e cosciente) realizza così una progressiva e disincantata alleanza tra gli istinti e le debolezze dell’umana natura da una parte, e l’accettazione ironica e consapevole delle loro disfunzioni, menzogne e sotterfugi dall’altra. Non siamo mai padroni di noi stessi, ci suggerisce Svevo, siamo degli esseri limitati, sempre in bilico tra la pressione dei nostri istinti e le esigenze della nostra coscienza, come ben traspare dalle disavventure divertentissime di Zeno inguaribile fumatore.

Se il pregio della psicoanalisi fu quello di rivelarci gli abissi fino ad allora poco conosciuti dell’interiorità umana e di dare un nome ai loro bellicosi abitatori, il suo principale limite, a mio avviso, fu quello di ridurre questo spazio oscuro ad un fascio di forze autonome di cui non aveva senso cercare l’origine, ma che bastava accomodare con le esigenze della realtà.

L’altro grande limite di Freud fu quello di ridurre interamente le forze animiche a pulsioni sessuali, limite che portò alla rottura del sodalizio tra l’intransigente medico viennese e il suo giovane discepolo Jung, ansioso di aprire il discorso psicologico al dialogo con le religioni, i miti, il simbolismo e la trascendenza.

Ripensando oggi, ai margini dei 90 anni della “Coscienza di Zeno”, a tutta questa trama di influenze, relazioni, ricerche e rielaborazioni variamente sfumate della scienza del profondo, viene da pensare agli spunti che molti teologi hanno tratto da questa disciplina, soprattutto attraverso il collegamento tra inconscio e natura umana ferita dal peccato. Come a dire: “Guardate quali abissi tenebrosi, quale notte grava sulla vostra anima, quali labirinti ignoti”. A ragione lo scrittore austriaco Stefan Zweig sintetizzò lo spirito dell’uomo moderno nel titolo di un suo celebre saggio dedicato a Hölderlin, Kleist e Nietzsche: “La lotta col demone”. Ma oggi di demoni si parla poco, anzi, spesso accade che psicologi e psicotearpeuti li travestano perfino da naturali forze vitali e benefiche da esprimere liberamente, consigliando ai propri pazienti di “essere innanzitutto se stessi”. Un consiglio devastante, se si pensa a cosa è l’uomo lasciato a se stesso.

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