“La fabbrica dei preti”: i soliti noti




Portare i propri bisogni al centro della propria vita, rifiutando il giogo di ogni regola e insegnamento. È questo in sintesi il messaggio della pièce teatrale “La fabbrica dei preti” in scena al Teatro Miela da giovedì 9 a sabato 11 febbraio. Cornice della rappresentazione: la diffusa acredine nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche, dei ministri del culto e dei credenti.

Lo spettacolo racconta la storia di tre ex sacerdoti formatisi in seminario nel periodo del primo Dopoguerra — anni ’50 e ’60 —, e successivamente travolti dal Concilio Vaticano II (1962-1965) che, nell’opera messa in scena, rappresenterebbe una rivoluzione così radicale da mettere in crisi l’intera esistenza e formazione umana, culturale e religiosa di questi tre prelati. A dare voce alla loro disfatta è l’attrice Giuliana Musso, autrice e regista della pièce: il fatto che sia una donna a vestire i panni dei tre sacerdoti è il primo segno degli intenti e dell’ideologia dell’opera.

La rivoluzione prodotta dalla “primavera” del Concilio, sempre secondo la visione della regista, poco a poco rivela la disumanità dell’educazione ricevuta in seminario dai tre sacerdoti che, dopo una discesa negli abissi della loro umanità negata e ferita, decideranno di abbandonare la tonaca e la fede. In questo riassunto dell’opera, vengono subito alla luce alcuni dei luoghi comuni più diffusi nella visione che l’uomo contemporaneo ha del cristianesimo e della Chiesa come istituzione chiamata ad incarnare nel mondo la Parola del suo Fondatore.

Quali sono questi luoghi comuni? Prima di tutto l’idea — ideologicamente condizionata e sbandierata come un vessillo dalle frange atee e contestatrici del ceto intellettuale nato sulle ceneri dell’Europa massacrata dalla guerra — che il Concilio Vaticano II abbia finalmente fatto risplendere il vero volto di Cristo nella sua Chiesa anche terrena. Secondo questa visione, prima di tale spartiacque, la storia del cristianesimo non sarebbe stata altro che una storia di interessi meramente venali e votati alla violenza, alla persecuzione, all’oscurantismo e alla repressione integrale dell’umano. Non si contano i libri, tuttora oggetto di una divulgazione vastissima e sempre più ferocemente ostinata nelle sue prese di posizione, che devono il loro successo al semplice fatto che parlano male delle istituzioni ecclesiastiche e dei suoi rappresentanti. Molti credenti della generazione che confluirà nel ’68, salutarono con gioia trionfale il Concilio, celebrandone quella che essi chiamarono l’apertura della Chiesa al mondo umano e alle sue esigenze più profonde. Il vento dello Spirito, secondo molti cattolici, aveva acceso nei cuori una nuova Pentecoste. Finalmente, si diceva, Cristo mostra il suo vero volto nel suo Tempio terreno, come se tutto ciò che c’era stato prima — il tesoro di carismi, di santità, di mistica, di insegnamenti, di rivelazioni, di opere concrete di carità, di miracoli, di fioriture culturali e progressi concreti che hanno segnato luminosamente il percorso terreno della Chiesa da quasi due millenni—, non fosse mai esistito.

In realtà il Concilio Vaticano II elaborò, in rapporto ai tempi mutati, nuove forme di comunicazione e di linguaggio per portare all’uomo un messaggio in sé immutabile ed eterno, una Verità che non è sottoposta al tempo, ma che è infinita e mai conoscibile del tutto. La Chiesa come umana istituzione da sempre cammina nella storia con l’impervio compito, assegnato ai suoi ministri e ai suoi fedeli, di mantenersi fedele alla Verità nel rispetto della sua profonda e immensa umanità, e insieme di declinarne il messaggio nelle forme consone alla cultura e ai linguaggi delle diverse epoche senza mai scadere in facili accomodamenti con il contingente. La Chiesa in se stessa invece è spirituale, universale ed eterna, corpo mistico della cui bellezza ed eternità beatifica tutti gli uomini di buona volontà sono chiamati a far parte.

Un altro luogo comune è quello della disumanità dell’educazione e del costume di vita a cui, chiunque voglia diventare ministro di Dio, è costretto a piegarsi fino all’annullamento di sé. Ancora una volta non si fa una distinzione tra il contenuto del messaggio e la forma con cui viene comunicato, tra ciò che viene annunciato e i limitati strumenti che recano materialmente l’annuncio. In sintesi non si tiene conto del fattore storico, nonostante la teologia in tutte le sue branche da tempo abbia posto questa distinzione a fondamento dei propri studi e dei propri saperi. Ogni epoca ha il suo livello di comprensione, la sua temperie storica e culturale con i suoi linguaggi e i suoi codici, sempre perfettibili e mai definitivi. Ogni epoca ha i suoi filtri attraverso i quali fa passare la sua visione delle cose: nella Chiesa questa visione è sempre la stessa, semmai cambiano i filtri a maglie più o meno fitte elaborati dagli uomini a seconda dei periodi, delle loro capacità di comprensione e di espressione. La diversità della formazione dei preti nei seminari, in diversi momenti storici, è diversità di forma e di linguaggio, ma non di insegnamento, di dottrina e di finalità. Questa finalità è sempre la medesima: preparare i ministri di Dio al Regno dei cieli affinché essi siano poi capaci di rendere pronti gli altri uomini a questo stesso Regno, aprendo nella gigantesca cupola di cemento edificata tra cielo e terra dalle contingenze e dai drammi della storia, quante più finestre e porte possibili verso il cielo.

La Chiesa è “nel” mondo ma non “del” mondo, anche questo è un prezioso insegnamento semplicemente messo in particolare evidenza e non inventato dal Concilio Vaticano II. È il mondo che deve essere riformato sulla misura della Chiesa e non la Chiesa sulla misura del mondo. Su questo punto vi è una grande confusione. Ma per capire bisogna conoscere e conoscere bene, a fondo, sia l’umano sia il divino, due conoscenze che si affinano e si approfondiscono a vicenda. I ministri di Dio sono anche maestri di umanità, ma non nel senso che devono assecondare i bisogni effimeri e superflui, oltre che errati, dell’uomo — i suoi capricci e le sue bizze —, ma nel senso che devono essere capaci di chinarsi sulle vere necessità, sia corporali sia spirituali dell’umano. Questa insistenza nel vedere in una scelta di vita radicalmente orientata a Dio, come è quella dei suoi ministri, una forzatura, una frustrazione, una prigione disumana che ucciderebbe poco a poco l’uomo di carne, cuore e sangue nascosto dalla tonaca, è un altro luogo comune sbandierato ovunque e adoperato per spiegare le presunte mancanze di chi serve il Signore. Qui agisce una visione errata, o comunque molto limitata dell’uomo, che vorrebbe congedare del tutto un’antropologia millenaria che ha invece il suo fondamento in Dio. L’uomo si è costruito la sua antropologia, comoda giustificazione per accampare ovunque, come diritti non negoziabili, le proprie “voglie”, come diceva Benedetto XVI. L’antropologia che Gesù ci ha donato nel Vangelo invece è esigente, vera, intensamente umana, sì faticosa, ma come un’ascesa montana che alla fine ci ricompensa. Essa svela l’uomo all’uomo, l’uomo della grazia all’uomo errante e sempre fallibile.

Contrariamente a quanto vuole affermare e dimostrare la pièce al Miela, e con essa gran parte della cultura e del costume di oggi, non sono i ministri di Dio a dover assecondare i bisogni effimeri dell’uomo ma gli uomini a dover ascoltare quanto Cristo, attraverso la sua Buona Novella e la sua Chiesa, ha da dirgli sul suo conto in termini di senso, di finalità e di pienezza. Per questo i ministri sono chiamati ad essere genuinamente uomini e al contempo più che uomini. “Può un cieco guidare altri ciechi?”, chiedeva Gesù. L’uomo di Dio si prepara a vedere e a guidare e in questo duplice ruolo deve mettere tutta la sua fede ma anche tutta la sua umanità e il suo amore. Grande è la sua responsabilità. Il fuoco della sua missione deve restare sempre acceso per rischiararci la via e portarci ogni giorno la Voce che ci ricorda qual è, o meglio, chi è la Verità che ci rende liberi. Un fuoco che i soliti noti — ciechi che vogliono guidare altri ciechi — si ostinano a non voler vedere per quanto vivaci, luminose e calde siano le sue fiamme.

 

 

 

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