Alla coscienza si obbedisce. E' questa l'idea di Papa Francesco che nella lettera a Scalfari aveva detto che ci si salva ascoltando la nostra coscienza. La "sinderesi" è la voce di Dio che parla alla coscienza di ognuno.

La coscienza e la «sinderesi»




Papa Francesco – come Benedetto XVI prima di lui – si sta rivelando una fonte ricchissima di riflessioni su ogni aspetto della fede cristiana. L’entusiasmo lo fa correre assai e non è facile stargli dietro. Alcuni temi sono esposti in profondità, altri solo abbozzati. C’è molta carne al fuoco, uno stimolo continuo all’approfondimento.

Nella “Lettera a chi non crede” (4 settembre 2013), scritta al giornalista Eugenio Scalfari, il Papa parla tra l’altro della coscienza. Scalfari gli aveva domandato, in precedenza, «se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede». Papa Francesco ha risposto che «la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza», premesso che «la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito». Il peccato, infatti, «c’è quando si va contro la coscienza». Cosa dunque significa – domanda il papa – «ascoltare e obbedire» alla coscienza? Significa – risponde – «decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire».

L’«ascolto» della propria coscienza – il Santo Padre lo ha sottolineato senza ambiguità – non consiste in una vaga valutazione personale interiore sul da farsi, non è un’analisi sui pro e i contro di cosa fare e di cosa non fare, ma nell’«obbedire» alla coscienza. È ripetuto due volte: «obbedire». Vi è, cioè, secondo quanto insegna il Magistero, una voce di Dio che parla alla coscienza di ognuno – credente o non credente – alla quale è opportuno «obbedire», prima e dopo ogni valutazione soggettiva.

C’è, infatti, una parte della nostra coscienza che non è stata colpita, ferita, dalle conseguenze del peccato originale: la «sinderesi», la voce di Dio, che comunica all’uomo la Legge eterna. Così intuiscono i teologi scolastici del basso Medioevo. Etimologicamente, «sinderesi» è una composizione di termini greco-bizantini: «synteréo», vedere, osservare se stessi. Ma anche «syneidesis», largamente usato da san Paolo, che indica la consapevolezza di qualcosa. Anzi, proprio da «syneidesis» – consapevolezza (con-sapere) – deriva il latino «con-scientia» e, dunque, coscienza.

L’insegnamento è stato accolto dal Magistero che, nel Catechismo della Chiesa Cattolica, afferma: «[…] La coscienza morale comprende la percezione dei principi della moralità (sinderesi) […]» (n. 1780). Così come la ragione pura (intelletto) riconosce intuitivamente e immediatamente, ad esempio, i principi postulati della geometria – punto, retta, ecc… – anche la ragione pratica (che determina la volontà) ha una capacità innata e immediata di riconoscere, per principio, il bene e il male.

San Girolamo – tra i primi – afferma che, nell’anima, vi è una «scintilla conscientiae» (luce della coscienza), in grado di operare una distinzione spontanea tra bene e male (“Commentariorum in Ezechielem prophetam”, I, c. I). Molto tempo dopo san Tommaso d’Aquino specificherà che la sinderesi «è la prima regola dell’agire umano», non la coscienza (“De ver.”, q. 17, a. 2, 7m), nel senso che la coscienza può errare, ma non la sinderesi (cf “II Sent.” d. 24, q. 2, a. 4). Secondo san Tommaso la sinderesi è un abito della ragione e non si può estinguere (cf “II Sent.” d. 39, q. 3, a. 1 – d. 24, q. 2, a. 3).

«La sinderesi – scrive l’Aquinate – è quindi la custode della legge morale naturale […], mentre il compito della coscienza è quello di fare attenzione a questa legge applicandola ai diversi casi dell’agire umano». E perciò, «appare chiara la differenza fra sinderesi, legge naturale e coscienza: la legge naturale si riferisce ai principi universali del diritto [il cosiddetto “diritto naturale”], la sinderesi si riferisce al loro abito, o alla facoltà con l’abito [abito della ragion pratica], la coscienza invece dice applicazione della legge naturale all’azione sotto forma di una conclusione» (“II Sent.” d. 24, q. 2, a. 4).

C’è, allora, nell’anima qualcosa d’inestinguibile, che è la voce di Dio. Paradossalmente, tale voce è talmente connaturata nella nostra anima, che sussiste anche nello stato di dannazione eterna, per cui i dannati soffrono di un rimorso perenne e acutissimo proprio a causa della sinderesi (cf “II Sent.” d. 39, q. 3, a. 3).

L’insegnamento della Chiesa sulla coscienza è esposto nel Catechismo della Chiesa Cattolica, nella terza parte, dal numero 1776 al numero 1802.

La Chiesa raccomanda la «formazione della coscienza», affinché il giudizio morale sia illuminato dalla retta ragione e sostenuto dalla grazia. Difatti, «una coscienza ben formata è retta e veritiera. Essa formula i suoi giudizi seguendo la ragione, in conformità al vero bene voluto dalla sapienza del Creatore» (n. 1783).

È importante sapere pure che «l’educazione della coscienza è un compito di tutta la vita. Fin dai primi anni essa dischiude al bambino la conoscenza e la pratica della legge interiore, riconosciuta dalla coscienza morale. Un’educazione prudente insegna la virtù; preserva o guarisce dalla paura, dall’egoismo e dall’orgoglio, dai sensi di colpa e dai moti di compiacenza, che nascono dalla debolezza e dagli sbagli umani. L’educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore» (n. 1784).

Se chiunque poi non obbedisce al «al giudizio certo della propria coscienza», ben formata e illuminata dalla grazia, il giudizio stesso sarebbe «erroneo» e, quindi, inclinato al male e all’errore (cf nn. 1790-1794). Il problema, per chi non crede e non educa cristianamente la propria coscienza, è proprio questo: fallire nella valutazione del giusto agire e, dunque, rimanere nel peccato.

In nessun caso, poi, la coscienza può essere «creatrice», come afferma Giovanni Paolo II nell’enciclica “Veritatis splendor”: non può cioè stabilire arbitrariamente, a capriccio, cosa sia bene e male.

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