Il mondo del principe splendente




La bellezza, la giovinezza, l’incanto dell’amore e la fragranza della vita. Pennellate morbide ed eleganti, nel nitore di pagine immacolate. Una visione brillante, come gemma rorida di brina, sensibilissima alla poesia di tutte le cose contemplate e assaporate nell’attimo inafferrabile del loro apparire e svanire. Lo spirito dei luoghi e delle stagioni, dei boschi e degli alberi, dei fiumi e dei laghi. Il poema delle montagne boscose e dei loro torrenti argentati, nel folto di foreste sacre. Come un rotolo fregiato di sonetti e di pitture delicate, sotto i nostri occhi si dispiega il Giappone medioevale immerso nella luce limpida di una delle sue stagioni di maggiore splendore culturale, letterario ed artistico: il periodo Heian (794-1185), così denominato dal nome della capitale imperiale Heiankyo (oggi Kyoto).

La settimana di eventi, dal 10 al 17 aprile, che l’associazione culturale “Wunderkammer” ha dedicato alla tradizione, alle arti e alle musiche dell’antico Giappone, è stata una preziosa occasione per respirare l’aura magica di questo mondo raffinato e solenne. Un’occasione anche per riflettere sul senso e il valore della bellezza, sulla qualità altamente poetica della vita e sull’amore come sortilegio dei sensi e dell’anima. Valori, questi, incardinati nella tradizione giapponese in una visione dell’essere e dell’esistere che possiamo definire “estetica” e quindi percorsa da un’ambiguità di fondo: il contrasto tra l’efflorescenza seducente dell’apparire e il suo carattere effimero ed evanescente. La parola “estetica” va al cuore dello spirito giapponese, quale si è dispiegato prima che il Giappone uscisse dal suo splendido isolamento e incontrasse per la prima volta il mondo occidentale.

Per capire bene l’anima di questa cultura possiamo rivolgerci a una delle più grandi e originali scrittrici giapponesi, vissuta nell’XI secolo: Murasaki Shikibu, autrice del romanzo fiume “La storia di Gengji”. Murasaki fu una dama di corte legata alla cerchia aristocratica che allora dettava legge in materia di gusto, cultura e bellezza. La composizione del suo capolavoro risale al 1010, data che segna l’inizio della sua stesura. Il libro che leggiamo oggi non è sicuramente quello originale, ma il frutto di una serie di rimaneggiamenti e ricomposizioni. L’autrice infatti via via che scriveva faceva circolare a corte le sue pagine che venivano lette con grande plauso. In questo modo, prima che l’opera fosse conclusa, iniziarono a diffondersi i capitoli separati che venivano letti come dei piccoli libri compiuti in se stessi. Questi nuclei narrativi autonomi vennero copiati e ricopiati dalle generazioni successive e solo nel XIII secolo, dopo un lungo e raffinato lavoro filologico, i capitoli separati e dispersi vennero raccolti e ordinati in un unico testo. A questo punto iniziò il travaglio felice della critica che nel “Genji” trovò una selva di cose belle, poetiche e ricche di significato da interpretare e celebrare.

Tralasciando le consuete considerazioni sul fatto invero singolare che, nel Giappone istituzionale e rigido nella codificazione dei ruoli e delle posizioni sociali, una donna potesse diventare la scrittrice più nota di tutta la storia della letteratura non solo giapponese ma universale, è importante soffermarsi sulle qualità principali dell’universo da lei rappresentato. È il mondo della corte imperiale dell’epoca Heian, una specie di arcipelago incantato composto di tanti padiglioni cinti da giardini paradisiaci e brevi corsi d’acqua, alberi e fiori di ogni genere. La corte rispecchia il firmamento: al centro l’Imperatore che è il Sole che tutto illumina e fa vivere, accanto a lui l’Imperatrice, che incarna nella sua maestà e nella sua quiete solenne la soffusa luce argentea della luna e tutt’intorno, come stelle radianti, miriadi di principi, nobili, ministri e dame di corte. Nella selva di personaggi influenti e di nobile lignaggio, fioriscono in un sottobosco profumato e segreto innumerevoli leggiadre fanciulle nate solo per allietare gli occhi e il cuore dell’uomo. Un tratto accomuna tutti questi personaggi: la cultura, la conoscenza della musica, della poesia, della danza e soprattutto una raffinatissima e impeccabile sensibilità estetica.

La vita a corte è scandita da grandi cerimonie, feste in occasione dei cambiamenti stagionali e della fioritura dei ciliegi, gare di poesia, conversazioni colte ed elevate, nobili passatempi come la pittura, la poesia e la musica, sullo sfondo di una cura costante ed esigente dell’estetica di tutte le cose, in primis del proprio aspetto. Niente viene lasciato al caso: i tessuti degli abiti, i loro colori sempre perfettamente armonizzati, il modo in cui cadono le pieghe del kimono, l’acconciatura, la postura, l’appropriatezza di ogni gesto. Questi elementi sono le cifre di un codice di vita rigoroso e regale. L’occhio dell’uomo e della donna di corte è educato a cogliere i dettagli minimi dell’apparire: la linea del collo femminile che si reclina dolcemente, la morbidezza con cui cade una manica, un ciuffo di capelli che adombra le fronte e rende più scuro e impenetrabile uno sguardo. La stessa accuratezza studiatissima regola il codice amoroso: il corteggiamento, l’uso di comunicare a distanza attraverso brevi poesie tratte dal vastissimo repertorio cinese allora molto apprezzato. Poesie che devono essere modulate di volta in volta sullo spartito delle situazioni e sulla qualità del sentimento. In rapporto alla qualità dell’occasione e alla risonanza emotiva che si vuol far vibrare, si varia il tipo di carta, di scrittura e di profumo da aspergere sul biglietto scelto in armonia con tutti gli altri elementi.

Come un animale velenoso acquattato dietro un cespuglio di fiori bellissimi, anche dietro questa scena leggiadra e quasi fiabesca si nascondono molte insidie. Dura e penosa è spesso l’esistenza di corte per i ministri e i funzionari che devono destreggiarsi tra impegni senza fine, invidie e congiure di corte; la poesia e l’estetica del vivere è la loro unica consolazione, il luogo della loro libertà e ricreazione. La stessa ambiguità adombra il mondo femminile: rivalità, gelosie e trame segrete che possono anche  uccidere, con manifestazioni di possessioni suscitate da dame influenti ancora in vita che perseguitano e distruggono con il demone del loro odio le loro vere o presunte rivali. Nel “Libro di Gengji” la narrazione ruota interamente sulle vicissitudini del principe figlio dell’Imperatore, noto come il “principe splendente”. Un giovane bellissimo, almeno secondo i canoni del tempo, che trascorre gran parte del suo tempo a inseguire l’amore, a sedurre, a contemplare la bellezza e a comporre versi. Per lui la conquista amorosa è la quintessenza della vita: come fiori timidi e delicati le fanciulle da lui amate trascorrono la loro vita nell’attesa di una visita del meraviglioso principe. Non sono felici. Attendono, dietro i loro paraventi, malinconiche e inerti, nell’incertezza del loro futuro, educate alla sottomissione e al silenzio, trattate come deliziosi giocattoli o ornamenti da ammirare, nascoste in angoli appartati da dove occhieggiano mute e tristi, la pelle di un biancore di neve e lo sguardo fisso ed assorto come quello delle bambole di porcellana create solo per compiacere gli sguardi.

Il mondo di corte è un microcosmo che riflette i grandi temi della vita, un teatro dove si rappresentano ogni giorno le commedie e le tragedie dell’uomo, una lampada magica che proietta figure fantastiche e misteriose ma fatte di nulla, pure ombre imprendibili che come esangui fiammelle palpitano per un attimo e subito si spengono. Quando cala il sipario, quando si spegne la lampada e scende la notte, allora nel silenzio di quel mondo ammaliante il cuore si trova nudo di fronte a se stesso e alle proprie illusioni. Tutto il romanzo è segnato, anche nei momenti che dovrebbero essere felici, dallo struggimento della malinconia e della nostalgia. In fondo tutti gli attori di questa ribalta magnifica sanno che nulla permane in questo mondo, che tutto è vanità, soffio, miraggio. La bellezza, la poesia, il sublime spettacolo della natura, gli affetti, le passioni, l’amore, l’arte e ogni altra espressione della vita sono solo fantasmi che svaniscono subito. Per questo non è raro che gli abitatori di questa isola apparentemente lieta e svagata decidano, dopo essersi saziati dei dolci piaceri terreni, di abbandonare il mondo e di ritirarsi in qualche monastero buddista arroccato sulle montagne, tra boschi selvaggi e irraggiungibili. Molte dame, dopo aver vissuto gli agi e le ricchezze della corte e aver conosciuto l’ebbrezza della conquista amorosa, si tagliano i loro splendidi capelli e fuggono anch’esse nei sacri asili dei monti, per votarsi alla preghiera e alla contemplazione.

Lo stesso Genji alla fine, dopo la morte dell’amatissima sposa che porta lo stesso nome della scrittrice, Murasaki, depone la sua principesca panoplia di seduttore e muore portandosi dietro tanto rimpianto e tristezza. Anche se sa bene che la vita non è che sogno e le passioni soltanto inganno e dolore, nel suo cuore e nella sua memoria perdura la favola antica e pur sempre bella della giovinezza e dell’amore. Non ha dimenticato nessuna delle fanciulle amate, nessuna delle poesie scritte e recitate, nessuna musica dei bei giorni di primavera, nessun petalo di ciliegio danzante leggero nell’aria fresca e profumata della primavera. Neanche la stagione delle piogge ha dimenticato, con i suoi lunghi giorni al chiuso, al fianco delle sue fanciulle in fiore, a conversare amabilmente e a poetare seguendo l’ispirazione dell’attimo. Né le sere fredde, in compagnia degli amici, a parlare di amore e di arte fino all’alba, per poi addormentarsi stanco ma appagato tra morbidi guanciali profumati di glicine. La brama di eternità e di infinito ha piantato oramai in profondità il suo vessillo nel cuore di Genji ma l’attaccamento alla vita dei sensi e alla bellezza terrena non è ancora sconfitto. Lo sarà, forse, solo dopo che il principe splendente avrà chiuso per sempre gli occhi.

L’opera di Murasaki è un canto altissimo e profondo dedicato alla bellezza e insieme alla vanità della vita terrena: una vita resa dolce e incantevole dalla poesia, dall’amore, dall’amicizia, dallo spettacolo fluttuante e iridescente delle cose belle, dagli entusiasmi e dai sogni della giovinezza. Una lirica, quella del Genji, che sorride e piange ad un tempo, come sorride e piange l’uomo nel succedersi delle sue stagioni, fiorendo in primavera, inebriandosi d’estate e addormentandosi poco a poco, mentre le sue illusioni cadono come le foglie dagli alberi, nel sonno senza ritorno dell’autunno e nel silenzio senza fine dell’inverno. Come un seme allora viene deposto nella terra ed è triste il commiato, velato di lacrime e di addii. Nel profondo il seme dorme. Come in attesa. Paziente, segreto, colmo di mistero.

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