Il genocidio armeno e la nostra memoria




Tra poco più di un mese cadrà il centenario del Metz Yeghèrn, il massacro di un milione e mezzo di armeni perpetrato dal governo nazionalista dei Giovani Turchi tra il 1915 e il 1916, nel pieno della Prima Guerra Mondiale. Il giorno scelto per commemorare le vittime di quell’eccidio è infatti da tempo il 24 aprile, che coincide con la prima grande deportazione della classe dirigente e politica del popolo armeno, avvenuta appunto il 24 aprile 1915. Si tratta di un avvenimento oggettivamente enorme, per il significato epocale che quella tragedia porta in sé, per i suoi significati simbolici (fu in Amenia, tra l’altro, che nacque il primo Stato cristiano della storia quando dalle nostre parti si andava appresso ancora a Giove e Giunone) e anche per il carattere di profezia che presenta: fu quello in effetti il primo genocidio in ordine di tempo di un secolo che ne avrebbe conosciuti molti altri, a cominciare dalla Shoah naturalmente. Ora, quello che è accaduto però con il caso armeno è piuttosto singolare. Nonostante si sia trattato con ogni evidenza di una catastrofe di popolo con pochi eguali, realizzata alle porte dell’Europa solamente pochi decenni fa, la conservazione della sua memoria è stata lasciata – oltre che ai diretti interessati – a pochi storici professionisti di nicchia e pochi altri. Certo, soprattutto negli ultimi anni la questione – anche per il probabile ingresso della Turchia nell’Unione Europea – è stata nuovamente oggetto di dibattito, anche e soprattutto a livello politico, dove alcuni Stati – tramite i loro rispettivi Parlamenti – hanno approvato mozioni o risoluzioni tese a riconoscere pubblicamente la tragedia che allora accadde e anche il suo carattere di ‘genocidio’, cosa che – come noto – continua a essere messa in discussione ancora oggi da più parti. Però anche in questi casi alla fine si è trattato di pronunciamenti tutto sommato di rito, se non relativamente marginali. L’impressione è insomma che di quel massacro inaudito la gente normale, diciamo così per capirci, cioè la gran parte dell’opinione pubblica contemporanea dei nostri Paesi, non per forza laureata, ma neanche così ignorante dopotutto, ne sappia ancora oggi, a un secolo esatto da quei fatti, poco o nulla. Che pure allora dei cristiani siano stati crocifissi, torturati e fatti oggetto di atti di violenza inenarrabile pare che sia una questione meramente privata che debba restare confinata alla memoria personale dei discendenti delle vittime, quando ci sono. Che lì, per la prima volta, comparvero dei campi di sterminio, tecnicamente ‘campi di deportazione’ perché la morte non veniva procurata direttamente dai persecutori ma causata per fame, sete o sfinimento nelle lunghe marce senza una meta, sembra un dettaglio archeologico di poco conto. Che infine persino Hitler prese poi a modello quella carneficina per spronare ad analoghe efferatezze i suoi negli anni della Seconda Guerra Mondiale pronunciando la fatidica frase: “Chi mai si ricorda oggi degli Armeni?’” suona addirittura curioso ad alcuni.

Quello che invece a noi pare singolare, considerato tutto ciò (ma molto altro si potrebbe aggiungere, a cominciare dalle persecuzioni più efferate sui religiosi e sui consacrati), è proprio che del luogo dove la tradizione biblica pone l’Arca di Noè e di uno dei popoli più fedeli al Cristianesimo ha conservato le sue radici si sappia tuttora poco o nulla, quando va bene. In Italia i fratelli Taviani qualche anno fa produssero un film eloquente su quei fatti – La masseria delle allodole – ispirato a un romanzo omonimo della scrittrice Antonia Arslan ma, anche in quel caso, finite le rassegne cinematografiche la pellicola è rimasta negli scaffali dei ristretti cultori di film storici e chi si è visto si è visto. Ora, non staremo qui a montare polemiche sciocche su altre analoghe commemorazioni della storia recente più o meno evidenziate, o seguite, perché i morti sono tutti uguali. Da cristiani però vogliamo dire che il caso armeno c’importa e c’importa particolarmente, anche se nessuno di noi è armeno o ha parenti armeni. Giovanni Paolo II, in occasione del 1700^ anniversario del Battesimo della Nazione, su quei fatti disse – non a caso – che si trattò di un atto di immolazione di popolo a cui l’intera Europa cristiana avrebbe dovuto essere perennemente grata: “Al popolo armeno voglio dire anzitutto il mio grazie per la sua lunga storia di fedeltà a Cristo, fedeltà che ha conosciuto la persecuzione ed il martirio. I figli dell’Armenia cristiana hanno versato il loro sangue per il Signore, ma tutta la Chiesa è cresciuta e si è rinsaldata in virtù del loro sacrificio. Se oggi l’Occidente può liberamente professare la propria fede, ciò è dovuto anche a coloro che si immolarono, facendo del loro corpo una difesa per il mondo cristiano, alle sue estreme propaggini. La loro morte fu il prezzo della nostra sicurezza: ora essi risplendono avvolti in candide vesti e cantano all’Agnello l’inno di lode nella beatitudine del Cielo (cfr Ap 7,9-12)”. Chiaro il concetto? Insomma, riprendere in mano – o iniziare a farlo – quelle pagine oggi potrebbe insegnarci molte cose: anzitutto comprendere quale dono inestimabilmente grande sia la fede, poi che questa non è mai data così una volta per tutte ma va sempre riaffermata in ogni tempo, infine che non sono mai esistite epoche veramente tranquille per il Cristianesimo: ai tempi del paganesimo, all’alba dell’età moderna e anche nel Novecento. Giusto per non dimenticare in che cosa consistano le famose, già più volte rinnegate, ‘radici cristiane’ e riflettere sul fatto che anche la storia dei singoli popoli in fondo reca in sè una teologia ricchissima, significativa e profonda, se solo la si medita un pò seriamente.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *