Margarethe von Trotta anche questa volta non ha deluso. Il suo film su Hannah Arendt – la celebre filosofa ebrea tedesca (1906-1975), già allieva di Heidegger, che emigrò negli Stati Uniti nel 1941 dopo aver trascorso un mese nel campo d’internamento francese di Gurs, divenuta poi celebre per i suoi studi sul totalitarismo – arrivato in Italia in questi, giorni mantiene in pieno le attese e, in tempi in cui persino “La grande bellezza” vince un Oscar, riconcilia il pubblico più dichiaratamente anticonformista con un cinema che sa finalmente tenere insieme fedele narrazione storica e indagine filosofica d’autore senza indulgere in nessun canone politicamente corretto o alle volgarità a iosa che caratterizzano la pellicola di Sorrentino. La produzione, tutta tedesca, e coronata da un’interpretazione a dir poco sontuosa di Barbara Sukowa nel ruolo della Arendt, porta in scena il primo film mai realizzato su questa complessa figura di donna, intellettuale ed ebrea, viaggiatrice instancabile senza radici e appassionata dell’anima umana. Il pretesto è offerto dal processo ad Adolf Eichmann (1906-1962) che si tenne a Gerusalemme nel 1961 all’indomani della cattura da parte del Mossad (il servizio segreto israeliano) che scovò il criminale nazista – già sfuggito a Norimberga – in terra argentina. La Arendt, che era da tempo negli USA, dove continuava a insegnare all’università, volò allora di corsa in Israele per seguire lo storico processo giorno per giorno. Scrisse così alcunì articoli di cronaca per il settimanale New Yorker – che originarono una serie incandescente di polemiche – da cui poi trasse il famoso saggio La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme che uscì in prima edizione in inglese nel 1963 (Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil) l’anno dopo la condanna a morte per impiccagione di Eichmann, e nella successiva versione tedesca che divise letteralmente in due la Germania l’anno seguente (Eichmann in Jerusalem. Ein Bericht von der Banalität des Bösen) per le edizioni Piper di Monaco. Ora, già fare un film a soggetto filosofico che parla di filosofi veri presentando dialoghi a tema, non è proprio facilissimo, meno che mai per un pubblico disabituato al cinema impegnato come quello odierno. Tuttavia ci pare che l’opera della von Trotta (113 minuti serrati di dialoghi, interrogatori e confronti sui massimi sistemi), nonostante tutto, riesca in pieno nell’intento.
La biografia umana della Arendt è riprodotta per sommi capi fino al 1960 e oltre toccando i rapporti decisivi (tanto a livello esistenziale, quanto di formazione del pensiero) con Martin Heidegger (che resta un crocevia fondamentale dell‘intera cultura tedesca di primo Novecento, si pensi al confronto che ebbe con lui anche Santa Teresa Benedetta della Croce) da una parte e Hans Jonas – lui pure ebreo – dall’altra. Ne emerge un quadro vivace, oltremodo appassionante e complicatissimo che rifugge da ogni schematismo e attraversa invece tutte le domande che la filosofa pose a se stessa (e ai suoi lettori) senza reticenze e scandalizzando non poco. Di religione non si parla mai (la Arendt non era credente) ma tutti i confronti più caldi del film sono, alla fine, assolutamente leggibili in chiave religiosa. E’ noto che la filosofa – che aveva già provocato negli anni Cinquanta non poche orticarie equiparando per la prima volta la barbarie hitleriana a quella stalinista – arrivò alla conclusione che i gerarchi nazisti, i loro collaboratori e i funzionari che li coadiuvarono, alla fine erano molto più simili a noi, uomini-medi della strada, di quanto noi stessi fossimo disposti ad ammettere. La stessa espressione ‘male assoluto’ forse non le sarebbe piaciuta tanto perchè rischiava di rimandare appunto a un’universo astratto di azioni e comportamenti surreali situati nell’iperuranio, ovviamente di per sè ingiustificabili e quindi derubricati sbrigativamente sotto la motivazione: “follia”, “pazzia“, “satanismo” eccetera. Così, però, il problema di come fosse stata possibile l’organizzazione di massa, teorica e pratica, dell’intero universo concentrazionario rimaneva irrisolto. Se sono tutti pazzi, come si suol dire, allora nessuno è pazzo.
E invece no: per la Arendt la chiave andava cercata da un’altra parte, nelle vite stesse dei gerarchi. Non nello straordinario mai visto, quindi, ma nelle pieghe abituali dell’ordinario. Sotto questo punto di vista, lo studio attento della personalità di Eichmann le confermò quanto pensava. Quel ‘diavolo’ era una persona di una mediocrità umana indecente, per l’appunto ‘banale’. Conduceva una vita totalmente mediocre, senza attese e senza motivazioni, che si limitava – così diremmo oggi – a timbrare il cartellino. Che poi quel cartellino significasse mandare a morte milioni di persone la cosa non sembrava turbarlo. Per questo l’ebrea Arendt arrivò a dire l’indicibile: l’antisemitismo viscerale in quanto tale non sembrava la molla principale della sua azione. Lui si limitava, così aveva detto egli stesso, a organizzare i trasporti ferroviari istruendo pratiche dove apponeva timbri, protocolli e nulla osta amministrativi. Non aveva preso in mano nessun’arma: semplicemente doveva assicurarsi che gli orari delle partenze e degli arrivi fossero rispettati e che la catena burocratica predisposta dal regolamento di servizio fosse osservata. Lui era solo l’addetto al controllo di un certo passo dell’iter amministrativo: quello che succedeva prima e quello che sarebbe successo dopo non doveva interessarlo. Forse che in una catena di montaggio di una macchina l’operaio si domanda da dove viene l’acciaio su cui sta lavorando o chi s’incaricherà della prova di guida finale? No, egli deve solo montare le porte e assemblarle, al resto ci penseranno gli addetti alla manutenzione o alla guida. Questa era la lineare logica procedimentale seguita dall’imputato. Follia pura? Lavaggio del cervello? Manipolazione mentale? Eppure Eichmann è quest’uomo qui, rispondeva la Arendt, mentre lo osservava per ore e ore stare ritto dietro la cella del tribunale a Gerusalemme. E, aggiungeva, se non indossiamo anche noi questi abiti mentali non comprenderemo mai l’essenza di fondo del consenso alla macchina dello sterminio. Poi, certo, c’erano state anche amicizie giovanili sbagliate e frequentazioni pessime, cattivi maestri e modelli devianti, infine, quindi, Adolf Hitler e il partito. Nonchè, aggiungerebbe ancora il cristiano, il peccato originale in tutta la sua dimensione prorompente e oggettivamente innegabile. Nel film l’espressione non compare mai ma giunti all’uscita della sala la prima riflessione che viene in mente è senz’altro di natura religiosa ed etica: in concreto, da dove viene il male? che cosa mai lo rende possibile? é possibile sottrarsene? come e in che modo?
Per queste domande, la Arendt, che di suo non era comunque un tipetto pacifico di carattere e a volte in pubblico appariva perfino arrogante, ruppe con Heidegger, poi con Jonas, infine – in parte – con suo marito, che pure era un uomo straordinariamente colto. E questa, forse, è l’altra grande qualità del film: riuscire a trasmettere tutta l’intensità del dibattito intellettuale europeo del primo e secondo Novecento oggi totalmente rimossa. Che si possa rompere un’amicizia per una pura questione metafisica ci pare, questo sì, una follia. Le grandi domande morali adesso non ci scuotono più, nè ci toccano affatto. In alcune scene si vede bene che la Arendt amava follemente la sua lingua madre (il tedesco), che allora era anche la lingua per antonomasia della filosofia occidentale, e non si trovò mai a suo agio con la nuova lingua franca internazionale (l’inglese), che pure padroneggiava con qualche difficoltà (anche se s’innamorò perdutamente della società americana), infine da ebrea – in famiglia – si esprimeva naturalmente solo in ebraico e passava le giornate a leggere (per puro piacere, nell’originale greco) Aristotele e Platone. Che dire, un altro mondo ragazzi, un altro mondo.
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