Il fascino dell’abisso




Aggirarsi nei dintorni dell’oscurità è passione antica. Da sempre l’uomo, per la sua stessa costituzione ferita, ha subito la fascinazione della vertigine, dell’abisso e della tenebra. Le più diverse antropologie, civiltà e culture hanno edificato su questa sinistra vocazione — giustamente chiamata da Edgar Allan Poe in un suo racconto “demone della perversità” — legioni di miti, leggende e perfino religioni. Il buio chiama e l’uomo risponde, aspettandosi chissà quali emozioni e rivelazioni dalle voci oscure e misteriose della notte.

Nella nostra città dal 2011 esiste un gruppo chiamato “Licht und Blindheit” che invita e ospita, in scenari gotici appositamente allestiti per l’occasione tutta notturna, dj, cantanti e band di musica dark e “gotica”. L’intento è promuovere, all’interno dello scenario musicale esistente, quella piccola frangia chiamata “goth” svolgendone le più diverse sfumature e suggestioni. Il gotico, già nel suono del nome, ha sempre destato una speciale fascinazione, specie nell’arte, producendo opere di immane bellezza. La notte e il chiarore lunare, magari con le rovine di qualche vetusto maniero avvinghiato da rovi e rampicanti, è un’immagine seducente: basti pensare ai settecenteschi pittori di rovine che hanno ancora molto da dirci e rivelarci.

È di questi giorni un altro omaggio della nostra città al mito romantico dell’angelo della notte: il Teatro Miela infatti a un anno dalla morte del “Duca Bianco” David Bowie, idolo notturno di generazioni di divoratori di musica, ha dedicato a questo artista due giornate di incontri, proiezioni e spettacoli. La voce di Bowie è sicuramente una delle più belle, originali e toccanti del mondo musicale dagli anni ’70 ad oggi. Ma il suo mito è quello ricorrente nell’universo gotico in generale: il culto dell’angelo caduto   sempre dipinto in forme armoniose e preraffaelite, dimenticando che il vero angelo caduto non è né bello né nobile, ma sordido e orribile. Belle possono essere le immagini ideali congiunte a questo mito, ma non la realtà di cui sono maschere ingentilite da ciprie romantiche e poetiche. Il male, quello vero, è uno sfregio totale all’essere e ha un volto che nessuno vorrebbe mai incontrare.

Associando tutte queste cose mi colpisce un pensiero: quanto può riuscire attraente il richiamo della notte e dei suoi fantasmi, specie quando si attraversano i labirinti dell’adolescenza e della prima giovinezza sempre alla ricerca di qualcosa che appaghi l’inquieto cercare risposte. Nessun giudizio in questa affermazione, solo una constatazione oggettiva che vale per chissà quanti di noi, che almeno una volta nella vita abbiamo sicuramente sentito il canto delle sirene e creduto di non poter resistere a tale richiamo.

Da dove viene questo potere che ha il negativo di sedurre, affascinare e trascinare? Perché quando si è giovani l’oscurità, il nulla, l’abisso, la rivolta e la disperazione sono nel medesimo tempo emozioni dolorose che si avvertono nell’intimo e insieme approdi verso cui volgere la prua dei propri spediti vascelli assetati di avventura e di fuga dalla luce del giorno? In letteratura gli artisti romantici e poi decadenti hanno fatto di questo continente sommerso e infero la meta prediletta dei loro viaggi mentali e spirituali, come se scavando in profondità nel ventre della terra, ove giacciono violente forze telluriche e distruttive, si potessero abbeverare ad una sorgente prodigiosa latrice di ogni potere e facoltà, oltre che depositaria di una esoterica verità nascosta da svelare e diffondere. Sappiamo che nessuno di questi pur grandi artisti che ci hanno donato pagine letterarie e liriche, musiche e opere figurative di straordinaria forza evocativa e novità, che hanno sicuramente aperto nuove strade alla conoscenza dell’uomo e delle dinamiche più profonde della vita, nessuno ha mai trovato vagando nella notte quanto andava disperatamente cercando in alternativa al giorno e alle sue possibilità. Tutt’altro, per molti di loro tutto si è concluso in una bruciante sconfitta.

Le credenze antiche, fondate sulla mitologia, come quelle dei popoli della Mesopotamia, dell’Egitto, della Persia e poi della Grecia — senza dimenticare le religioni dell’Oriente indiano, cinese e giapponese con i loro demoni e le loro ambigue divinità in cui bene e male, creazione e distruzione, luce e tenebra, coesistevano — hanno sempre cercato di non separare il buio dalla luce, tenendo insieme tutti gli opposti così da condensare in uno stesso calco ogni cosa e il suo contrario. Di qui una certa tendenza a onorare e celebrare le arcane e negative potenze della tenebra come una fonte sacra di rigenerazione e di esorcismo della duplicità e ambivalenza della natura stessa. Anche alle origini della nostra fede, nel mondo ebraico, seguire gli idoli significava abbandonare il Dio unico, latore di bene e di luce, per le divinità pagane dei popoli circostanti che non distinguevano tra bene e male. Abbandonarsi alla sfrenatezza degli istinti e delle passioni, equivaleva a esprimere l’ipotetica interezza dell’uomo e della natura, nella totalità dei suoi istinti alti e bassi, sorta di inconscio ancestrale antecedente a ogni distinzione.

Il cristianesimo si fonda su un assoluto rovesciamento di prospettive rispetto a questo mondo pagano e mitologico che vuole dare voce ed espressione, indifferentemente e commisti tra loro in una stessa figura, al buio e alla luce che sono nell’uomo, agli inferi e ai cieli empirei che si incurvano gli uni sugli altri nel nostro essere. La grande diffusione del new age con la sua ripresa di tanta mitologia pagana e la sua diffusione di divinazioni e pratiche esoteriche spinte spesso fino al confine del ridicolo, fa parte di questa umana cedevolezza e fascinazione davanti al richiamo dell’abisso. Alle radici della visione cristiana dell’uomo vi è il peccato originale: una colpa atavica che ha allontanato l’uomo dalla comunione con Dio e che ha chiuso i suoi occhi veggenti e sfolgoranti di luce, ferendo per sempre la sua natura. Questa ferita nei millenni e nei secoli ha adombrato e turbato la vita dell’uomo, inclinandolo al fascino del negativo. Perfino un ateo irremovibile come il saggista e filosofo rumeno Emil Cioran ha ripetutamente affermato nei suoi aforismi che solo l’antropologia cristiana riesce a spiegare, con il dogma del peccato originale, l’essenza della condizione umana nella sua commistione di luce e buio, di bene e di male, di dolore e di gioia.

Quando si è giovani e smarriti tutto ciò che è straordinario, diverso e sopra le righe, tutto ciò che devia dai sentieri del giorno per addentrarsi nelle foreste notturne dove abitano spettri e demoni, può sembrare attraente e perfino risolutore di ogni interiore conflitto, domanda di senso e desiderio di pienezza. Eppure l’uomo, nel profondo più profondo del proprio essere, conosce bene la distinzione tra gli opposti e quando erra sa bene di errare e l’angoscia che ne prova, commista all’ebbrezza della sfida, glielo rivela senza tregua. Allora tutto può cambiare all’improvviso e, quasi senza saperlo, passo dopo passo, ci si ritrova a non capire più neanche la ragione per la quale certe cose, certe persone e certi desideri ci attraessero tanto. Anelavamo a qualcosa di grande, di titanico, di magnifico, qualcosa che fosse umano e insieme più che umano. Ma la notte è stata deludente ed avara, se non mortale. Non è il buio, ma è la luce ad elargire all’uomo quel dono grande, titanico e magnifico che, superandolo, gli insegna ad andare oltre se stesso, verso l’alto, placando ogni sua attesa e sopendo quell’interno turbamento tra trepidante e timoroso che arde nell’anima come una “promessa ineludibile di felicità”.

Tutto a volte inizia dall’angoscia che si fa sentire quando avvertiamo, appena, nell’intimo di noi stessi, che in qualche modo ancora oscuro ci stiamo tradendo. Ascoltando l’angoscia che tuona e batte alle finestre e alle porte della nostra vita all’improvviso si scorge qualcosa che balugina nell’oscurità. A volte ci si mette in cammino verso quel lampo di luce e si entra poco a poco nella terra del giorno e del sole sfavillante dove, per gradi, si impara a camminare con passo vieppiù certo e tranquillo, e non a tentoni, incerti e spaventati, come nell’oscurità.

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