Indovinate dove ha trovato posto la recente mostra fotografica “If I were Mao” (Se io fossi Mao), dell’artista Tommaso Bonaventura, il cui nome e cognome – vedremo – sono un programma. Al Museo dell’Arte socialista di Sofia? No, acqua. Al Circolo di Rifondazione comunista di Genova? No, acqua. Alla Cattedra dei non credenti di Milano? No, fuochino.
Ebbene, i ritratti dei sosia di Mao sono stati esposti nella Chiesa di San Tommaso d’Aquino a Roccasecca, cioè nel primo edificio dedicato al santo dopo la canonizzazione del 1323. Fuoco!
Nell’epoca dell’iper-dialogismo compulsivo la scelta di Roccasecca, paese natale di san Tommaso nella contea di Aquino, è d’obbligo. Ed eccole là le gigantografie di Mao Zedong, che salutano il visitatore approdato a Roccasecca, magari convinto di trovarci l’ultimo baluardo dell’ortodossia cattolica. E invece ci trova il parroco della chiesetta, in dialogo fervente con Tommaso Bonaventura che però, sembra, a dispetto delle sue generalità, non intenda avere molto a che fare con l’Aquinate e con San Bonaventura da Bagnoregio.
Tommaso – il fotografo, non il santo – «ha seguito gli attori cinesi specializzati nelle imitazioni di Mao, che ogni giorno recitano in molte zone del paese, convincendoli ad essere fotografati». Così spiega il sito del Festival Imagin’Art.
Anna Maria Rossini, autrice dello scatto qui pubblicato, scrive sul suo blog che l’«addobbo grottesco» è stato avallato dall’«Amministrazione Sacco», nel senso che Giuseppe Sacco è il sindaco di Roccasecca. E Sacco, su Facebook, loda il «festival della fotografia, manifestazione finanziata dalla regione Lazio», perché questa «valida offerta culturale servirà proprio a farci conoscere nel mondo». Nel mondo è improbabile, vista la già diffusa notorietà del tomismo, ma nella memoria di qualche turista sprovveduto senz’altro.
È un delitto esporre Mao in una Chiesa? No di certo. Nelle chiese sono presenti anche le raffigurazioni di Lucifero. Il problema è che Lucifero è sempre ben riconoscibile per quello che è: ha le corna, la coda, gli artigli e abita tra le fiamme dell’inferno. Il Mao di Bonaventura – il fotografo, non il santo – è invece sorridente, benevolo e ammiccante il visitatore. Non ha le corna, come invece dovrebbero avere i nemici di Cristo. Tutt’al più ha le simpatiche corna del celebre scalpo attorno alla testa, per via dell’incipiente calvizie.
Qua dunque non ci siamo. Le chiese hanno sempre ospitato l’arte, ma per dire la verità, non per un vaniloquio infruttuoso a prescindere. Bonaventura – il santo, non il fotografo – dice chiaramente come evitare il vaniloquio: San Francesco d’Assisi «predicò, al Soldano, il Dio uno e trino e il Salvatore di tutti, Gesù Cristo» (Legenda Maior, c. IX). È stato più volte riproposto il San Francesco predicante, al posto del San Francesco dialogante, ma nessuno ha mai fatto un cenno d’interesse. Tra i più silenziosi troviamo proprio i dialogisti compulsivi odierni, che preferiscono il San Francesco giullare.
Inos Biffi, sull’Osservatore Romano del 27/01/2009, concorda col fatto che Tommaso – il santo, non il fotografo – «è stato un modello di dialogo con le culture del suo tempo». Però, sottolinea Biffi, «sarebbe anzitutto necessario precisare – e non lo si fa quasi mai – che cosa si intenda per dialogo». Ed è molto semplice precisarlo: nel rapporto con la cultura del suo tempo, a San Tommaso «importa la verità, non la sua provenienza».
Ancora più schiettamente, scrive Biffi: «Nessun dubbio che san Tommaso abbia trascorso la sua laboriosa vita di teologo in dialogo culturale, ma non per un puro conoscersi reciproco, per un ammirarsi a vicenda o per fare semplicemente della storia, bensì con lo spirito critico ed esigente di chi si propone di discernere il vero dal falso e di giungere al traguardo liberante della verità».
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