House of Clinton o del finto progressismo che distrugge l’Occidente




Negli ultimi anni molti si sono esercitati a trovare dei parallelismi tra l’ascesa al potere dei coniugi Clinton, Bill e Hillary, e quella degli Underwood, Frank e Claire, protagonisti di House of Cards, la celebre serie televisiva americana.
Qualcuno ha scritto che i Clinton, come gli Underwood, hanno provato a controllare i media, hanno usato come consulenti celebri giornalisti e messo i loro ex funzionari sulle poltrone di tv e giornaloni. Altri hanno notato come le manipolazioni dei motori di ricerca e dei social media orchestrate dagli Underwood per vincere le elezioni somigliano all’esercito di troll messo in piedi dai clintoniani (inutilmente, ha vinto il popolo del web che ha votato Trump, hacker compresi); per non dire dei CEO di Big Web chiamati al capezzale di Hillary quando è arrivato il Don (l’incontro patrocinato dall’American Enterprise Institute) o dei milioni di dollari versati dalle grandi corporation della net-economy al partito democratico, compreso quello obamiano.
Altri ancora si sono ingegnati a trovare il corrispettivo nella realtà di personaggi immaginari come Doug Stamper, anima nera dell’amministrazione Underwood, il depositario dei segreti di Frank e Claire, che riesce sempre a cavarsela (quasi sempre, a fregarlo saranno proprio i suoi padrini) visto che gli scandali e i misteri in cui è immerso svaniscono puntualmente dall’orizzonte dei media. Qualcuno si ricorda per caso di Huma Abedin, il braccio destro di Hillary, e della tempesta mediatica durata il tempo di un telegiornale quando saltò fuori che il marito della Abedin, l’ex deputato Anthony Weiner, si scambiava foto porno su Internet con una minorenne? Dal desktop condiviso tra Weiner e la Abedin e dai pc dei Democratici all’epoca uscì di tutto. Per non dire dei complottisti, che in House of Cards trovano pane per i loro denti, visto che la serie tv praticamente dà il via libera al teorema dei “Clinton bodies”, quella lunga scia di morti sospette che i Clinton, sempre secondo i cospirazionisti, si sarebbero lasciati dietro nella lunga carriera.
Noi complottisti non siamo ma ci permettiamo di ricordare che Wikileaks ha promesso migliaia di dollari per avere informazioni sul caso di Seth Rich, il giovane funzionario del partito democratico trovato morto, si dice ucciso in una rapina (anche se quando lo ritrovarono aveva ancora portafoglio e orologio al polso), e che, così pare, avrebbe rivelato proprio al sito di Assange le magagne orchestrate dal partito democratico per togliere di mezzo il rivale di Hillary alle elezioni, il socialista Bernie Sanders (dopo che Wikileaks diffuse i file, l’allora responsabile del potente comitato elettorale nazionale del partito fu costretta a dimettersi). Seth Rich come Zoe Barnes, la giovane giornalista che finisce sotto un vagone della metropolitana nella prima e fortunata stagione della serie? Ok, va bene, non facciamoci prendere dall’immaginazione, non siamo mica in una serie tv.
Ma finiti questi pur utili esercizi di stile, c’è qualcosa che i fan di House of Cards, compreso l’ex presidente Obama e l’ex primo ministro italiano Matteo Renzi che arrivò ad annunciare un nuovo tipo di formazione politica del Pd ispirato alle serie tv e alle “gesta” degli Underwood (salvo ritrattare com’è tipico di Renzi) fingono di non capire, sul senso profondo del successo di questa serie, ed è qualcosa che va altro il parallelismo tra i Clinton e gli Underwood. House of Cards segna il de profundis del progressismo piccolo borghese contemporaneo, con la sua ansia patologica di potere, il suo parossistico femminismo, la famiglia ridotta a un cumulo di macerie (Frank arriva a dire all’amante della moglie “non tradirla con un’altra”). A quel genere di pubblico non sembra vero che i propri “valori”, che corrispondono alla corruzione della morale occidentale moderna, siano magnificati nel cuore della Casa Bianca, in uno spettacolo televisivo torbido e inquietante dove Frank e Claire incarnano la società americana di oggi come viene proiettata dai media, dal complesso mediatico del politicamente corretto.
Il tema di House of Cards è il collasso del progressismo come molla ideale del cambiamento sociale e la sua subordinazione e sostituzione con quello che vediamo andare in scena ogni giorno nelle nostre vite, di cui le serie tv sono solo lo specchio: un mondo sbrindellato, in cui vincono la spregiudicatezza e la menzogna, e se non ci si arriva così c’è posto per la violenza, innanzitutto quella ideologica verso chi la pensa diversamente da te. Un mondo dove una donna, Claire Underwood, pur di accaparrarsi la sua fetta di potere, è pronta ad abortire e ad andare a raccontarlo in televisione per raccogliere qualche voto. E tutti si commuovono. Dove suo marito, Frank, il presidente, tratta gli americani come dei “bambini”, parole sue, trasformando la “Città sulla collina” in una morbida dittatura.
Una dittatura soft che non pesa al pubblico ‘progressista’ di House of Cards, così come nelle nostre vite, ormai, non pesa l’ideologia che per decenni ha fatto marcire l’America e l’Occidente, quella che possiamo facilmente riconoscere in ogni espressione attuale del pensiero dominante, con il suo individualismo fuori controllo, il relativismo etico e il desiderio di autoaffermazione che calpestano qualsiasi altro valore precedente e comunitario. E’ sufficiente rivedere qualche puntata di House of Cards per completare il quadro: siamo elettrizzati davanti al racconto della crisi dell’Occidente, perché questo racconto legittima i nostri comportamenti irrazionali e autodistruttivi, l’Underwood che è in ognuno di noi. Ma signori e signore, la notizia è che lo spettacolo cambia. Urge la serie tv su Donald Trump. Qualcosa di meglio dell’ultima stagione di House of Cards.
di Roberto Santoro
Fonte: https://www.loccidentale.it

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