Trieste non ha dimenticato lo scrittore Fulvio Tomizza. Ogni anno infatti vengono organizzate diverse iniziative per ricordare il cantore dell’esilio (ma non solo). Tomizza infatti, nella sua lunga e vasta produzione, ha esteso lentamente la sua ricerca soprattutto in campo storico, anche se sempre su uno sfondo locale colto nelle sue innumerevoli stratificazioni e testimonianze documentarie.
Sabato 29 giugno è stata presentata presso il Museo Sartorio la nuova edizione “La Trieste di Tomizza. Itinerari” (Comunicarte edizioni). Questa pubblicazione ci rinnova il ricordo del Tomizza amoroso conoscitore di Trieste e passeggiatore solitario tra le sue strade affollate in tante comuni giornate di vita. Non era difficile infatti vedere Tomizza attraversare la città con la sua caratteristica aria dimessa e pensosa, a volte con una ordinaria borsa di nylon in mano, forse ricettacolo di un po’ di spesa raccomandata dalla sua amatissima moglie.
Questo volevo ricordare di Fulvio, che tra l’altro ho conosciuto personalmente e con il quale sono rimasta in contatto fino a pochi giorni prima della sua morte: la sua spontanea umiltà, la sua umanità generosa, sempre naturale e mai costruita, come era logico per un uomo come lui che aveva conosciuto le durezze della vita sin da ragazzo e sapeva bene che cos’è la sofferenza impotente. Tuttavia in lui questa umanità semplice e immediata, che gli illuminava sempre gli occhi ridenti e profondi, era anche molto di più di una radicata consuetudine contadina e di un habitus famigliare: era qualcosa di “suo”, intimamente “suo”, un’apertura di tutta la sua anima alla vita e all’anima degli altri, senza calcolo, ragionamenti o questioni di etichetta.
Era accogliente, ospitale, gentile, ma sempre nel suo stile dimesso e raccolto. Era uno di noi, che si sentiva così immerso nel comune flusso della storia, a fianco di tutti gli uomini, da dimenticarsi a volte di essere scrittore celebre e uomo pubblico. Il suo numero di telefono era sulla guida telefonica come quello di qualsiasi altra persona, quando lo si chiamava rispondeva subito e mai si negava nonostante avesse sempre tanto da studiare e da scrivere. Se era andato a fare, come ogni comune mortale, il suo riposino pomeridiano, la moglie ti diceva di richiamare dopo un’ora o poco più perché il marito stava dormendo. Se poi stava male, Fulvio ti raccontava anche questo e ti spiegava i suoi disturbi, le sue difficoltà, sempre garbato, attento, disponibile. Perfino pochi giorni prima di morire, rispose ad una mia telefonata e mi mise a parte delle sue aggravate condizioni di salute, ma con una serenità e una schiettezza che in seguito, a morte avvenuta, mi aiutarono a vedere la sua fine prematura con occhio tranquillo e altrettanto sereno.
Posso dire che era un amico: la mia nonna aveva conosciuto Fulvio ragazzo e tutta la sua famiglia ed erano rimasti sempre in contatto. Fu lei a farmelo conoscere e a raccontarmi tanti particolari della sua infanzia e della sua vita in Istria.
Quando ritornava alla sua casa di campagna, Tomizza era solito di sera cercare riposo dalle fatiche letterarie nella piccola osteria del paesetto, sotto una pergola fiorita, davanti a un boccale di buon vino, chiacchierando con i paesani come se ogni volta riprendesse il filo di un discorso iniziato tanti anni prima, fitto di osservazioni sul tempo, il raccolto, la potatura degli alberi.
Scriveva e lavorava instancabilmente, soprattutto quando a prevalere furono gli interessi squisitamente storici. Studiava documenti d’archivio, vecchi libri di storia, vagliando ogni dettaglio, ogni versione di un medesimo fatto, unendo senza fretta tassello a tassello, per poi smontare e rimontare di nuovo tutta la costruzione se subentrava un nuovo particolare, una versione dei fatti un po’ difforme dalle altre. Il suo stile rispecchiava perfettamente i suoi metodi di lavoro: sobrio ed elegante, preciso, chiaro, intessuto con un lindore aureo che conferiva al succedersi delle frasi un respiro vasto e pulito. Un vero artigiano della parola, che muoveva la penna con la stessa metodica perizia e lentezza con cui da ragazzo aveva imparato a servirsi degli utensili per i piccoli lavori agresti. Ma soprattutto un uomo, calmo, paziente, che sapeva aspettare l’evolversi e la maturazione delle cose, che sapeva capire i tempi naturali ed umani, con i loro ritmi, le loro fragilità, le loro linfe nascoste.
Questo è lo scrittore e l’uomo che ho conosciuto e che continuo sempre a ricordare, specie quando incontro altri letterati, scrittori e poeti che tanto umili ed umani non sono. Spesso hanno anche letto i suoi libri e magari li hanno anche molto amati e gli hanno dedicato dei saggi, ma credo che, a giudicare dal loro modo di essere e di fare, dell’uomo che li ha scritti abbiano in definitiva capito ben poco.
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