Galassia Trump: mappa ragionata alla squadra di governo che guiderà l’America con il Don




Rovesciare le politiche di Obama su lavoro, welfare, ambiente e istruzione. Ristabilire un rapporto privilegiato con Putin. Contrastare la minaccia jihadista. Rinegoziare i rapporti commerciali con la Cina. Sono questi i principali criteri che, fino adesso, hanno guidato il presidente eletto Donald Trump nella scelta dei membri della squadra di governo che lo affiancherà nei prossimi quattro anni alla guida dell’America. Punti programmatici su cui Trump ha costruito la sua campagna elettorale e il suo successo alle elezioni presidenziali. Principi chiari, com’è chiara chiara la strategia del Don: dare vita a un team che sia in grado di realizzare quanto promesso e che sia quindi il più allineato possibile alla sua visione sul futuro degli USA.

Ecco perché non stupiscono le polemiche che hanno fatto seguito a molte delle nomine rese note nelle scorse settimane. Polemiche sollevate ad arte da parte di chi non ha ancora digerito il fatto che il vento in America è cambiato. Tra le prime scelte di Trump c’è stata quella di Reince Priebus, che dopo aver guidato il Comitato elettorale repubblicano ed essere stato al fianco del candidato repubblicano durante la campagna, è stato nominato “chief of staff” della Casa Bianca, ruolo chiave per ‘mediare’ fra Trump e il Congresso e far avanzare nelle camere il programma trumpista. Nomina contestatissima è stata invece quella di Steve Bannon, ‘guru’ del sito conservatore Breitbart, chiamato a ricoprire il ruolo di “chief strategist”, consigliere anziano del presidente. Nelle intenzioni di Trump, Bannon lavorerà come “equal partner” con Priebus, e, notizia degli ultimi giorni, con Kellyanne Conway, la lady di ferro che ha guidato la macchina elettorale trumpista. Nell’inner circle c’è anche posto per il genero Jared Kushner, che avrebbe già acquisito una ‘linea diretta’ con Trump.

La parola d’ordine per Trump è “discontinuità”, cambiamento, e non è un caso se molti dei nuovi membri dell’esecutivo americano sono noti per la loro avversione nei confronti delle politiche obamiane. Uno su tutti, James Mattis, “mad dog”, cane pazzo, nominato da Trump segretario alla Difesa. Ex generale dei Marines, il nuovo numero uno del Pentagono non hai mai nascosto la sua avversione nei confronti dell’amministrazione Obama, in particolare riguardo all’accordo sul nucleare con l’Iran. Il 66enne Mattis ha anche espresso in più di una occasione perplessità sugli interventi militari in Iraq e Afghanistan. Così come Tom Price, chirurgo ortopedico, deputato repubblicano della Georgia e presidente della commissione bilancio della Camera, che Trump ha scelto alla guida della sanità Usa. Il nuovo segretario dell’Health and Human Services Department si è battuto contro l’Affordable Care Act, meglio noto come “Obamacare”, la riforma sanitaria di Obama, che il nuovo presidente intende rivedere profondamente.

Sull’Obamacare aveva espresso un parere negativo anche Ben Carson, il neurochirurgo avversario di Trump alle primarie del Partito Repubblicano, chiamato dal Don come primo afroamericano nella squadra di governo, alla guida del Department of Housing and Urban Development, il dipartimento per le politiche abitative e dello sviluppo urbano. Carson è sempre stato contro i programmi di sicurezza sociale e della edilizia popolare portati avanti dai Democratici. Come pure uno schiaffo ai programmi educativi di Obama è stata la nomina di Betsy DeVos a segretario per l’istruzione, una donna che ha passato la vita a sostenere le scuole private e i voucher per le famiglie che non vogliono mandare i loro figli a studiare nel sistema dell’istruzione pubblica.

E ancora le nomine del repubblicano Mike Pompeo – acerrimo oppositore dell’accordo con l’Iran e favorevole alla raccolta dati sulle comunicazioni degli americani – a direttore della CIA; quella di Andrew Puzder – ex CEO di una catena di fast food americani e contrario alla politica sul salario minimo di Obama –  al dipartimento per il lavoro; di Ryan Zinke – teorico della indipendenza energetica degli Usa, tra i promotori della campagna contro la moratoria sul carbone voluta da Obama e favorevole a nuove concessioni per gas e petrolio – al dipartimento per l’interno; quella di Rick Perry – ex governatore del Texas per quindici lunghi anni – alla guida del dipartimento per l’energia. Convinto che lo Stato non debba intervenire troppo nelle questioni economiche, Perry ha fatto del Texas il bastione delle politiche antiobamiane. Tutte nomine che, come abbiamo detto, vanno nella direzione della “discontinuità” con i due mandati del presidente democratico.

Se restiamo sul fronte economico, Trump ha scelto come top adviser Gary Cohn, ex presidente e CEO della banca di affari Goldman Sachs, a direttore del National Economic Council, e Steven Mnuchin, un altro ex “Goldman”, come nuovo segretario al Tesoro: Mnuchin, un investitore di successo nel comparto del private equity e degli hedge fund, nel 2009 ha dato vita a uno dei più importanti gruppi bancari della California. Come pure nel gruppetto dei miliardari chiamati a governare gli USA rientra Wilbur Ross, segretario al commercio, patrimonio netto secondo Forbes intorno ai 2,9 miliardi di dollari. Ross, come Trump, è contrario agli accordi di libero scambio come il Nafta, emblema della politica economica clintoniana degli anni Novanta, che, insieme all’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, secondo lui hanno causato enormi perdite di posti di lavoro nelle aziende degli Stati Uniti. E arriviamo alla nomina di Rex Tillerson a segretario di Stato. Anche lui, come il Don, è un uomo d’affari – amministratore delegato di ExxonMobil, colosso del settore oil & gas – indicato da Trump soprattutto per le ottime relazioni che può vantare con il presidente russo Vladimir Putin, con cui il presidente eletto vuole ristabilire un rapporto di collaborazione dopo l’epoca delle sanzioni che tanto hanno allontanato Washington da Mosca. Sanzioni che Tillerson ha sempre giudicato “deleterie”.

Un altro che vede di buon occhio l’alleanza con Putin, in funzione anti-Isis, è Michael Flynn, nel gruppo degli ex generali che andranno alla Casa Bianca, nominato consigliere per la sicurezza nazionale. La nomina di Flynn è il segno più evidente della volontà della amministrazione Trump di affrontare di petto la questione del contrasto alla internazionale jihadista. “La nomina mostra una coraggiosa determinazione nel mettere la parola fine alla deliberata ignoranza con cui l’amministrazione Obama ha trattato la minaccia jihadista”, ha detto Pamela Geller, presidente della American Freedom Defense Initiative (AFDI), in una intervista rilasciata all’Occidentale. In tale contesto è da inquadrare anche la scelta di Jeff Sessions a procuratore generale degli Usa; il nuovo “guardiasigilli” si è opposto come un leone a tutte le leggi di riforma del sistema migratorio, incluse quelle che avrebbero reso più facile per gli immigrati senza documenti ottenere la cittadinanza USA. Nella stessa direzione va la nomina di John Kelly – ancora un generale in pensione – a segretario per la Homeland Security; Kelly si è scontrato spesso e volentieri con il presidente Obama, denunciando la porosità del confine meridionale tra Stati uniti e Messico.

Segnale di rottura con il passato è pure la nomina dell’economista Peter Navarro a capo del National Trade Council della Casa Bianca. Navarro è noto per le sue posizioni sempre molto critiche nei confronti delle politiche commerciali tra Cina e Stati Uniti. Vale la pena ricordare che durante tutta la campagna elettorale Donald Trump ha accusato ripetutamente la Cina di aver “stuprato” gli Usa con le sue politiche commerciali. Navarro non è da meno, ha scritto un saggio dal titolo eloquente, “Morte per mano della Cina”, e considera il celeste impero “uno stato completamente totalitario”. Potrebbe esserci lui dietro la telefonata di Trump alla presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, che ha fatto infuriare Pechino. Una nomina di non poco conto sul piano del commercio globale, insomma. Idem per quella di Elaine Chao, 63enne moglie del leader della maggioranza repubblicana al Congresso, Mitch McConnell; la Chao è nata a Taiwan ed è stata indicata da Trump come nuovo segretario ai Trasporti (aveva ricoperto l’incarico di segretario al lavoro durante la amministrazione Bush).

La 44enne Nikki Haley, governatore repubblicano del South Carolina fino al 2011, figlia di immigrati indiani, sarà invece il nuovo ambasciatore Usa alle Nazioni Unite – incarico da far tremare i polsi dopo che nei giorni scorsi il Don ha definito il Palazzo di Vetro un posto dove la gente “va a perdere tempo e a divertirsi”. Tra le altre nomine già fatte da Trump ricordiamo quella di Jason Greenblatt, legale della Trump Organization, come “negoziatore internazionale”; quella di Thomas Bossert, veterano della amministrazione Bush, a consigliere per l’antiterrorismo e la cybersicurezza (Bossert è convinto che le guerre in Iraq e Afghanistan “erano e restano giuste” anche se “il modo in cui è stata condotta la guerra in Iraq resta fonte di analisi e di rimorsi”); quella di Carl Icahn, uomo di Wall Street, a consigliere particolare per la regolamentazione, o sarebbe meglio dire alla “deregulation” in materia economica; e ancora Scott Pruitt, ex procuratore generale dell’Oklahoma, considerato il principale architetto delle sfide legali alla normative ambientali obamiane e scettico sulle teorie del “riscaldamento globale”, nominato alla Agenzia per la protezione ambientale (EPA); Linda McMahon, ex CEO della World Wrestling Entertainment, a capo della Small Business Administration, una sorta di ministro per le piccole e medie imprese; il repubblicano Mick Mulvaney, alle politiche sul budget; Larry Kudlow, noto commentatore televisivo di CNBC e convinto sostenitore di una politica che taglia in modo significativo le tasse, a capo del Council of Economic Advisors, l’agenzia che offre consulenza economica al presidente Usa.

Trump, infine, nei giorni scorsi ha messo assieme un gruppo di politici ed esperti di relazioni pubbliche, media & policy sherpa, per evitare che le nomine di Governo possano essere bloccate al Congresso, quando Capitol Hill darà il suo benestare alla squadra messa in piedi dal presidente eletto. Questa “task force” avrà anche il compito di presentare al meglio il team di governo ai cittadini ed elettori USA. Con il loro voto gli americani hanno chiesto di essere governati da volti nuovi, che non siano compromessi con l’establishment politico che ha governato il Paese negli ultimi decenni, ed effettivamente la maggior parte delle scelte fatte da Donald Trump fino a questo momento non sono convenzionali. Quando mancano poche settimane alla cerimonia di insediamento, dunque, la parola d’ordine resta discontinuità con il passato, prossimo e remoto, per aprire una nuova stagione della storia americana, con buona pace degli alfieri del “politically correct”.

di Bernardino Ferrero e Carlo Mascio

Fonte: https://www.loccidentale.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *