Facciamo festa: Dio è disceso tra noi!




È diventato un luogo comune riproporre ad ogni Natale la medesima reprimenda sul consumismo e lo spreco. Troppo cibo, troppe spese per i regali, troppe vacanze, troppi impegni famigliari: in una parola, “troppo”, di ogni cosa! Non vengono risparmiati neanche gli alberi e i presepi, anch’essi gravati dal troppo: troppi gingilli, troppe luci e statuine, troppi fili multicolori, troppi svaghi fiabeschi e via dicendo. Al di là della legittimità o meno di queste riserve, si possono comunque interpretare tutti questi scenari colorati e brillanti — sempre calibrati sulla misura della bellezza e dell’armonia e non sulla dismisura dell’esibizione vanesia di beni in eccesso — anche come un’espressione visibile e palpabile di un momento cardine che segna un passaggio di valore epocale ed universale.
L’uomo è da sempre abituato, fin dai primordi della civiltà, a festeggiare gli eventi straordinari anche con l’allestimento di scenari di grande ricchezza e bellezza e di una serie di “liturgie” magnifiche pensate per onorare la prosperità o la provvidenzialità di un evento felice. Forse anche tutto l’apparato di luci, cibi, doni, musiche e tradizioni che accompagna il Natale può essere visto come il segno visibile di un “avvento” che non ha paragoni nella storia dell’uomo e del mondo e che, come tale, va festeggiato degnamente. Non si accoglie un ospite nascondendo le proprie risorse, ma attingendo ad esse per onorare anche corporalmente la sua visita: nessuna tradizione prescrive di nascondere i propri beni e di imbandire una tavola spoglia e misera a coloro che onorano la nostra casa con una visita. Anzi: si spazza ogni angolo della dimora, perché sia linda, pulita e profumata; si bruciano aromi e si imbandiscono vivande delle più buone e preparate con cura ed amore; si accendono luminarie in tutta la casa e si dedica una cura speciale anche alla propria persona indossando gli abiti della festa così da riuscire gradevoli ai nostri ospiti.
Certamente siamo abituati a pensare alla povertà dell’Incarnazione di Dio in un bambino fragilissimo deposto nella mangiatoia di una capanna perché si riscaldi nella paglia e nel tepore del respiro del bue e dell’asinello. Ma come dimenticare gli angeli che incoronano la capanna e che levano il Gloria al Cielo, invitando tutte le creature a magnificare il Signore che viene a salvare il mondo? E i magi con i loro ricchi doni deposti ai piedi del Bambino? E la stella sfolgorante che solca il cielo come una splendida nave tutta d’oro in un mare di lapislazzuli? Povertà e ricchezza si dividono equamente la scena, richiamando gli uomini alla semplicità e all’umiltà nell’atto stesso con cui li spronano a vivere la Notte Santa omaggiando il Bambino con tutti gli onori degni di un Dio e della sua Gloria. Ciò che conta è lo spirito con cui ci prepariamo alla sua Venuta, perché è lo spirito che colma di significati autentici o meno i nostri atti e le nostre scelte. Posso onorare la povertà con le labbra, ma nascondendo in petto un cuore avido e avaro. Come posso ammantarmi di vesti preziose e circondarmi di cose belle, custodendo nell’intimo un’anima umile, povera e semplice. Ciò che conta è l’essenza delle cose, non l’apparenza. Per questo ha un suo significato anche la tanto vituperata “ricchezza” con cui allestiamo e viviamo il nostro Natale. Un albero ben addobbato, un presepe così ricco di statuine e di luci da sembrare un vero villaggio, un pranzo buono e abbondante, non possono pregiudicare il senso del Natale: dobbiamo fare festa perché nel mondo è entrata una luce quale mai si è vista né si vedrà all’orizzonte del mondo e dell’universo tutto.
Lo stesso Gesù invita i suoi a fare festa finché è con loro. Ogni cosa a suo tempo! Verranno giorni bui e tristi, velati da un senso greve di morte e di disperazione. E in quei giorni si faranno digiuni nell’attesa del sommo sacrificio. Ma neanche questo buio durerà e dopo tre giorni la luce, compimento di quel primo fulgore disceso sulla terra nella Notte Santa con il suo carico di magnifiche promesse, squarcerà per sempre le tenebre della morte. Adesso siamo nella gioia e la luce inonda i nostri volti assetati di speranza. Perché non fare festa? Con sapienza e senso della misura, ma anche con generosità e passione, in vista del sommo Bene incarnato davanti al quale ci inginocchiamo adoranti da quasi due millenni, nell’attesa del Grande Giorno in cui spariranno per sempre la miseria e il dolore e tutto sarà splendore, luce, gioia perfetta e bellezza perenne.

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