Intervista a Baykar Sivazliyan, presidente dell’Unione degli armeni d’Italia: «Massacrarono più di 40 miei familiari e la Turchia ancora nega. Ma non ho perso la speranza»

«Erdogan ci umilia ma il 23 aprile avremo un milione e mezzo di santi in più. Perché armeno significa cristiano»




Che cosa spinge una famiglia nel 1965 a inviare all’estero il proprio figlio di 12 anni, da solo, a vivere e studiare in un paese straniero, lontano da tutto e tutti? Per rispondere non bastano poche battute, ci vuole un racconto intero perché quella decisione racchiude tutto il dramma di un popolo, come quello armeno, e la storia di Baykar Sivazliyan. Nato a Istanbul, Sivazliyan è stato mandato a Venezia a studiare fin da piccolo e oggi è presidente dell’Unione degli armeni d’Italia. Lo scorso 12 aprile ha assistito in piazza San Pietro alle parole del Papa, che ha definito «genocidio» lo sterminio di un milione e mezzo di armeni a partire dal 1915, facendo infuriare la Turchia. «Dopo 100 anni, è un passo molto importante. Le parole di Papa Francesco sono una degna sepoltura per i nostri martiri», dichiara a tempi.it. «La Turchia si ostina a negare una verità che oggi fa più male alle giovani generazioni di turchi che non agli armeni».

Signor Sivazliyan, lei è nato in Turchia nel 1953 e l’ha lasciata già nel 1965. Come mai?

Si immagini com’era la vita se i miei genitori hanno deciso di mandarmi in Italia così piccolo, solo perché vivessi in un paese libero, normale, democratico.

Ha un brutto ricordo della sua infanzia?

Nessuno mi ha mai sparato o tagliato la gola, ma l’aria che si respirava non era ideale. Non mi ricordo un’infanzia spensierata.

Qualche esempio?

Più di una volta i miei compagni di gioco, davanti a casa mia, mi chiamavano “gavur”, infedele. In pubblico non potevo parlare armeno. Ricordo le scritte sui muri di tutta la città: «Cittadino, parla in turco». Il nazionalismo era molto forte. Poi la carta d’identità.

Cosa?

Mi ricordo con un certo terrore che sulla mia carta d’identità, in seconda pagina, c’era scritto in grande: armeno. Eravamo proprio segnati, marchiati. Insomma, c’era e c’è una armenofobia. Anche a scuola, noi non potevamo andare con tutti gli altri. Dovevamo frequentare le nostre e basta.

È in Italia che ha scoperto l’esistenza del genocidio armeno?

Sì. A casa mia su certe cose, quando si parlava, sentivo calare un improvviso silenzio. Soprattutto da parte dei miei nonni. Il primo anno che sono tornato a casa da Venezia, quando mia nonna si è accorta che ormai sapevo tutto, tra tante lacrime mi ha raccontato la storia della nostra famiglia. Prima aveva taciuto, anche per non appesantire la nostra fanciullezza.

Che cosa ha scoperto?

Una storia tragica. Il mio bisnonno era un ufficiale dell’esercito ottomano ed è stato ucciso con la divisa dell’impero ottomano addosso. Durante la prima parte del genocidio, 400 mila militari armeni sono stati massacrati nelle caserme. Era la prima volta nella storia che uno Stato organizzava l’annientamento dei propri cittadini di una chiara etnia. E la mia famiglia è stata duramente colpita.

Come?

Davanti a me ho due fotografie. La prima è stata scattata a Istanbul, nel 1926. I parenti di mia madre erano 36 persone in tutto, ma in questa foto ce ne sono solo 10. Gli altri erano stati uccisi. Nell’altra c’è la famiglia paterna: mia nonna, mio nonno e mio padre piccolissimo. Sono sopravvissuti in tre, ma erano più di 25. Penso così di aver detto tutto.

A 100 anni da quei fatti, che cosa la disturba di più?

Due cose. La Turchia si presenta ancora come un grande paese, ma non ha il coraggio civile di riconoscere la sua storia recente.

E la seconda?

Il diffuso negazionismo. I paesi occidentali non devono assecondare il silenzio di Ankara, anzi. Politici e capi religiosi devono aiutare la Turchia a riconoscere i suoi scheletri nell’armadio.

La verità aiuterebbe gli armeni a vivere questo centenario?

La verità aiuterebbe soprattutto la Turchia. Un mese fa ho partecipato a un incontro sul genocidio a Venezia. Al termine, una studentessa si è avvicinata in lacrime e mi ha detto: “Io sono turca e volevo solo dirle che anche noi ci stiamo svegliando”. E poi ha cominciato a singhiozzare. Sono rimasto colpito, l’ho abbracciata dicendole che non è colpa sua e le ho sussurrato delle parole in turco.

Ma così non si danneggia il dialogo?

Al contrario. Così si aiuta i turchi a fare i conti con la loro storia. Silenzio e negazione non risolvono niente. Bisogna avere il coraggio di dire la verità. Il dialogo può partire solo da qui e da qui nasce anche il perdono, perché nessun armeno odia i turchi.

Non vi offende che la Turchia neghi ancora il genocidio?

Sì, ma offende anche l’intelligenza umana. L’Unesco dice che ci sono 2.600 chiese distrutte o diroccate nell’Anatolia orientale. Di conseguenza, c’erano milioni di persone che andavano a pregare. Siccome i turchi non entrano in chiesa, chi ci andava? Qualcuno ci sarà stato. Dove sono finiti? Non si può negare davanti alla scomparsa di un milione e mezzo di persone. Non è un problema di perdono, ma di giustizia.

Perché secondo lei la Turchia nega ancora il genocidio? Cosa manca perché faccia quel passo che la Germania è riuscita a fare con gli ebrei?

La Turchia è malata di nazionalismo. Erdogan non vuole riconoscere il genocidio perché un turco non può essere una persona negativa, men che meno un assassino, figuriamoci se lo Stato turco è assassino. Per 100 anni hanno raccontato una storia falsa e parallela.

Dicono però che ora apriranno gli archivi.

Archivi? Dopo aver visto gli occhi di mia nonna, a cosa servono gli archivi? Sono dieci anni che come Unione d’armeni d’Italia stampiamo tutti gli atti diplomatici della Farnesina, quelli del console generale italiano a Trebisonda, che per gli armeni è un giusto. Lì è descritto tutto per filo e per segno. Parlando di archivi, Erdogan ci umilia e ci fa molto arrabbiare.

Come vivrà questo centenario?

Sicuramente è un momento di grande tristezza, perché dopo 100 anni ancora non riusciamo a parlare con la Turchia. Ognuno poi pensa anche ai propri cari morti, ogni famiglia armena ha almeno tre o quattro morti. Però devo anche dire che questa tristezza viene un po’ alleviata quando sento le tante voci di turchi onesti, soprattutto giovani e intellettuali, che senza paura oggi dicono che è arrivato il momento di riconoscere il genocidio. E sono tanti che lo pensano.

Quindi, dopo 100 di negazionismo, ha ancora speranza?

Sì, ed è una speranza cristiana. Armeno significa cristiano. Pensi che la sera del 23 aprile, dopo 400 anni che non canonizzava nessuno, la Chiesa apostolica armena dichiarerà santi quel milione e mezzo di martiri, tantissimi dei quali avrebbe potuto salvarsi islamizzandosi. Noi abbiamo sempre vissuto con gioia la nostra cristianità, anche se abbiamo pagato la scelta di diventare nel 301 il primo paese cristiano al mondo. Ora, pensi, ognuno avrà qualche santo in famiglia. Questa ci dà grande gioia e serenità d’animo.

di Leone Grotti

Fonte: http://www.tempi.it

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