“Dov’è il mio bambino?” Alle donne dell’aborto non servono sconti sulla verità, ma un incontro




Dov’è il mio  bambino?

Questo grido carico di angoscia l’hanno sentito infinite volte gli operatori di SOS Vita, il telefono che dal 1992 è attivo giorno e notte per  tentare di  salvare qualche bambino dall’aborto volontario, rispondendo alle richieste di aiuto di donne che non riescono a far fronte a una maternità difficile. Un telefono che ha anche portato alla luce un abisso di disperazione e di dolore rispondendo a donne che quel bambino lo avevano abortito e non sapevano darsene pace.

Un abisso di disperazione e di dolore che quasi mai trova il modo di venire alla luce e di essere perciò lenito, consolato, guarito. “Non pensarci più”, si dice ad una donna che ha appena abortito, “dimentica”. E del resto, con chi parlarne? Con il medico che ti ha raschiato via il figlio dal grembo? Con l’operatrice dell’ASL che ti ha rilasciato il certificato per abortire? Con lui che ti ha detto “se lo tieni non mi vedi più”? Con le amiche che ti hanno consigliato di abortire per non rovinarti la carriera?

Il dolore resta dentro e scava in silenzio. Un dolore che attraversa la donna nella sua natura, nel suo essere. Un dolore, oserei  dire, ontologico. Si può tenere a bada, ci si può anche convivere, giorno per giorno, ma niente è più come prima.

Dov’è il mio bambino?

Si  guarisce se s’incontra qualcuno, psicoterapeuta, medico, volontario pro life, che accompagna su una strada che può anche essere lunga, ma che non prescinda dalla verità, e perciò dall’incontro con Dio. Solo l’incontro con Colui che dà la vita può guarire davvero il peccato dell’aborto. Perché è lì che si  ritrova finalmente quel figlio rifiutato, che non è ricaduto nel nulla, ma vive nell’abbraccio del Padre.

Un percorso lungo, quello per guarire dall’aborto, nel quale non si possono fare sconti. Neppure in confessionale. La lunga esperienza di colloqui con donne che hanno abortito racconta di donne che, all’oscuro della scomunica latae sententiae che le aveva colpite e della necessità di confessarsi da un sacerdote “speciale”, vescovo, penitenziere, membro di un ordine predicatore – e  chi mai dà queste informazioni, chi mai parla di aborto dai pulpiti delle chiese? – hanno confessato  l’aborto nella confessione  abituale e ne sono state  frettolosamente assolte.  Per ignoranza del prete? Per un malinteso senso di misericordia? Anche lì, in confessionale, “va’ e non pensarci più”.

Ma non di questo la donna che ha ucciso il suo bambino ha bisogno. Infinite volte lo abbiamo sentito ripetere a SOS Vita. “Mi sono confessata, anche più di una volta, ma non mi sento perdonata”. Per sentirsi accolta e perdonata dal Padre e dal suo stesso bambino e per perdonarsi davvero, non basta un’assoluzione frettolosa e banale. Occorre scendere nell’abisso, vedere bene in faccia ciò che si è commesso. Poi la Misericordia  ti farà risalire e sarai guarita davvero.

Questo è anche  il senso della scomunica che S. Giovanni Paolo II, nella sua grande sapienza e nella sua tenerezza per le donne ha voluto conservare, ribadendola nell’Evangelium vitae, enciclica che non colpevolizza di certo le donne ma che scrive parole bellissime di consolazione e speranza anche per quelle che hanno abortito.

È in questa prospettiva che andrebbe letta anche la disposizione di papa Francesco. Purtroppo, come appare chiaro dalle prime reazioni, c’è un’alta probabilità che la facoltà di assoluzione concessa a qualsiasi sacerdote sia percepita e vissuta come misericordia a buon mercato. Ma non è di questo che la donna che ha abortito ha bisogno.

di Marisa Orecchia  Vice-presidente Comitato Verità e Vita

Fonte: http://www.lanuovabq.it

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