Su questione antropologica, cultura fluida e identità naturale si è detto molto in questi ultimi tempi e non per niente – sul versante germanofono – in passato abbiamo già citato le opere di una Gabriele Kuby o di una Birgit Kelle. Tornando in Italia, ma in quel pezzo tutto sui generis d’Italia, geograficamente parlando, che è la cultura altoatesina, segnaliamo ora l’uscita per San Paolo di una nuova edizione di Donne selvatiche, scritta a quattro mani dallo psicoterapeuta milanese Claudio Risè e appunto dal medico altoatesino, nonché moglie dello stesso Risè, Moidi Paregger (cfr. C. Risè – M. Paregger, Donne selvatiche. Forza e mistero del femminile, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2015, Pp. 224, Euro 14,50). Pubblicata – profeticamente, verrebbe da dire – per la prima volta più di dieci fa e ora ulteriormente ampliata, questa raccolta atipica di racconti tradizionali, miti, fiabe e saghe alpine, austriache, svizzere e nordeuropee in genere è un’opera che a nostro avviso non dovrebbe mancare nella biblioteca ideale della narrativa mitteleuropea controcorrente. Il motivo è presto detto: nel vivace dibattito in corso in questi mesi quasi nessuno aveva ancora pensato a motivare le argomentazioni a difesa del “genio femminile”, per dirla con Giovanni Paolo II, ricorrendo a quel patrimonio grandioso di storie – riprese dall’antica tradizionale orale e poi fissate per iscritto – della primissima civiltà mitteleuropea di cui si abbia qualche notizia. Intendiamoci: non è che siamo di fronte a un’opera di esplicita apologetica, a parte qualche riferimento sparso e il capitolo finale, anzi, la maggior parte della materia è tratta da motivi apertamente paganeggianti o pre-cristiani. Ma proprio qui sta il bello: che i numerosi ritratti di donne proposti disegnano proprio quell’identità naturale – ergo universale – del profilo femminile che molti oggi vorrebbero negare come se fosse una mera invenzione culturale o confessionale. Non è così, evidentemente, e le pagine di Donne selvatiche lo argomentano in una maniera che più plastica non si potrebbe con quella capacità di attrazione immediata che a volte solo la buona letteratura sa trasmettere.
Ci sono esperienze che la donna ha sempre fatto, in effetti, non perché siano degli stereotipi imposti dall’esterno ma perché rispondono al desiderio di armonica pienezza che abita in profondità la sua anima. Dalla cura orgogliosa e dettagliata del proprio habitat particolare (sia questo la terra materiale o la propria dimora) alla generazione della vita all’incontro empatico con l’altro in quanto complementare e diverso da sé suggerito dall’infallibile istinto personale, o sesto senso. In tutto questo, la donna ha costantemente realizzato col tempo la propria natura istintuale e affettiva riempendo di significato il proprio posto e la propria missione nella società. Molte cose, più che studiate, le ha apprese così per istinto o intuito ed è questo in ultima analisi il motivo per cui l’espressività, anche non verbale – ad esempio – nel suo complesso e ricchissimo mondo interiore è una dimensione così fondamentale (dall’interesse innato per il variegato mondo dei colori all’attrazione per alcuni tipi di suoni). Ad un certo punto, invece, gli Autori non indicano qui una data precisa ma il tempo storico denunciato è quello dell’ultimo secolo, particolarmente nella seconda metà, qualcosa per la donna – e di rimando quindi anche per l’uomo e la società tutta – è cambiato. Vuoi perché quello che aveva sempre fatto è stato messo radicalmente in discussione vuoi perché le è stato socialmente e materialmente impedito. Da qui lo smarrimento esistenziale, le incertezze sui ruoli, la confusione, infine la crisi e la depressione diffusa (qualcuno si è mai chiesto come mai la depressione colpisca in maniera così massiccia le donne in Occidente?). La fotografia è ad ampio raggio, tutta da leggere, e non è possibile qui riassumerla sinteticamente. Accenniamo allora solo una considerazione, a mò di introduzione alla lettura. Ad esempio il fatto che la natura femminile di base può sì essere solitaria ma mai vivere in solitudine. Si dirà: bella scoperta, forse che per l’uomo è diverso? In parte sì, in realtà. L’istinto a uscire da sé per andare incontro all’altro infatti è un tratto tipicamente femminile che dice in modo radicale la sua identità costitutiva e non-negoziabile, se ci passate il termine, per questo l’ambiente moderno del lavoro metropolitano – fatto di carriera, culto dell’egoismo, ricerca del risultato a tutti i costi e competizione dura – è così deprimente per la sua anima tendenzialmente più sensibile. Se pure ci si adatta spinta dalle fortissime pressioni sociali, alla fine lo fa però pagando un prezzo umanamente altissimo che la priva delle sue energie naturali migliori, non la rappresenta come visione di valori, non la completa interiormente e in ultima analisi non la realizza personalmente come donna. E se non si realizza personalmente, s’intuisce da queste pagine, la donna non potrà nemmeno dare il suo originalissimo contributo alla costruzione della società tutta, a partire dalla famiglia e dalla cura dei rapporti interpersonali nel tessuto sociale. La virtù della speranza, però, tra tutte le virtù, è forse quella più femminile in assoluto e anche per questo – sembrano suggerire gli autori – il futuro è ancora tutto da scrivere. Chi è chiamata a donare la vita è quasi naturalmente proiettata a immaginare il futuro con uno sguardo buono e provvidenziale, oltre a custodire il presente e a fare memoria del passato. Come si vede, gli spunti sono vari e si prestano ad essere rilanciati da più prospettive: antropologica, psicologica, filosofica, generalmente culturale (quella teologica la diamo per scontata in questa sede). Di questi tempi una vera, salutare, boccata d’aria fresca.
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