A costo di ripeterci, ci torniamo su ancora una volta perché ne siamo assolutamente convinti: uno dei problemi attualmente più urgenti del laicato cristiano è la pressoché assoluta perdita della memoria della propria peculiare biografia storica, recente e non. Non coltiviamo più nessun culto verso la nostra storia, la diamo per scontata, o forse non la reputiamo poi così importante, lasciando così di fatto l’orientamento delle coscienze e ultimamente – persino – della nostra vita, in mani altrui. Tutto questo mi è tornato alla mente in settimana quando mi è capitata per caso tra le mani l’ultima uscita della collana “Uomini e Donne” delle edizioni Paoline di Milano. Il titolo non lascia molto spazio alla fantasia, né a interpretazioni soggettive: Io numero 1211. Nell’inferno delle carceri comuniste cecoslovacche. L’autore, anzi l’autrice, è Dagmar Šimkovà, un nome che alla stragrande maggioranza di noi, ovviamente, non dirà proprio un bel niente. Diamo allora qui in breve qualche dettaglio di contesto: la Šimkovà, originaria di una colta famiglia cattolica della Boemia meridionale (distretto di Pìsek) nasce a Praga nel 1929. Dotata intellettualmente, manifesta una vocazione precoce agli studi umanistici e artistici che approfondisce nella storica Università Carolina (intitolata a Carlo IV). Tutto sembra andare più o meno bene fino all’esplosione del secondo conflitto mondiale che divide l’Europa in due blocchi contrapposti e al termine vede l’ascesa fulminante del totalitarismo socialcomunista in interi Paesi, da Mosca a Berlino (Cecoslovacchia compresa), la famosa Cortina di Ferro, per l’appunto. Nella nuova situazione politica e sociale che viene a crearsi quella ragazza ha una colpa inconfessabile: appartiene a una famiglia borghese e, perdipiù, cattolica praticante. E’ un crimine oggettivo, perché si oppone alla lotta di classe e nega in radice il materialismo dialettico, insomma per il potere è qualcosa da cui non ci si può redimere. L’esito è presto detto: Dagmar è costretta a interrompere gli studi e a tornare a casa, improvvisandosi infermiera per andare avanti. Ma non basta. Qualche tempo dopo, in un pomeriggio autunnale, all’improvviso viene prelevata dalla sua abitazione da sei uomini, portata in fretta a Praga e poi incarcerata: è accusata ufficialmente di tradimento e spionaggio ai danni del regime, così senza troppe storie. L’aspettano quindici anni di prigione. Quindici. Da allora in avanti sarà un viaggio senza soste nell’oscuro universo penitenziario riservato ai nemici del popolo. Trattamenti brutali. Celle senza bagno, senza luce e senza riscaldamento, razioni di cibo contate e sporche, insulti e minacce, ricatti e terrore.
Non è possibile tenere per sé nulla in questo girone disumano pensato per i reietti, neanche il proprio pudore, neanche la propria riservatezza. Discutere o controbattere gli ordini, fossero anche i più folli e insensati, non è ammesso altrimenti si va nelle celle di correzione, che sono molto peggio di quelle che già si ha. Ora, per una persona nomale, forse due o tre giorni si può resistere, aggrappandosi in ogni modo alle proprie residue forze interiori. Ma settimane…e poi mesi, e poi anni! La mente comincia a cedere, accanto a te vedi persone che non ce la fanno più e hanno già perso la ragione. Sono vicine allo stato delle bestie, così come le vuole il regime. Allora anche tu pensi che farai quella fine: impazzirai, se non riuscirai a trovare una via d’uscita. Beh, senza tirarla qui troppo per le lunghe, questa via d’uscita alla fine Dagmar l’ha trovata: grazie a Dio, alla fede e all’incrollabile fiducia nell’amore provvidente del Cielo che guida i nostri passi anche sulla strada misteriosa della via dolorosa. Uscirà infatti di prigione nel 1966, praticamente una vita dopo, quando ormai gli anni migliori sono passati per sempre ma, almeno, viva e ancora cosciente delle sue facoltà. Deciderà allora di andare in Australia, per ricominciare da capo e riprendere con serenità gli amati studi della sua gioventù. Diventerà psicoterapeuta, dedicandosi proprio alla cura psichica dei detenuti e degli emarginati. Lì, morirà, a Perth un giorno di fine febbraio del 1995 mentre intanto la sua Patria, a migliaia di chilometri di distanza, ha ritrovato la libertà. Oggi, a quasi vent’anni di distanza, in Italia escono le sue memorie. Tra il silenzio, l’indifferenza e forse anche la sottile derisione dei grandi mezzi di comunicazione sociale che hanno ormai archiviato l’inferno umano dei cristiani dell’Europa dell’Est nel ‘900 tra le pagine non gradite – o addirittura ‘controverse’ – dell’informazione corretta perché a sentire qualcuno i morti non sono tutti uguali: alcuni valgono di più, altri valgono di meno. Insomma, dipende dai casi. Allora, se non ce ne occupiamo noi di queste storie, chi altro mai dovrebbe occuparsene?
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