Crisi diplomatica tra Austria e Turchia




La notizia della settimana questa volta arriva da Vienna, teatro nei giorni scorsi di una improvvisa crisi diplomatica tra Austria e Turchia. Il motivo scatenante è ancora una volta la questione del genocidio armeno di cui quest’anno ricorre il centenario, ricordato già significativamente da Papa Francesco provocando le ben note reazioni scomposte da parte del governo di Ankara che ha ritirato il proprio ambasciatore presso la Santa Sede. Stessa sorte è toccata ora a Hasan Gogus, il plenipotenziario turco di stanza a Vienna che è stato lui pure richiamato in Patria per consultazioni all’indomani dell’approvazione del Parlamento federale austriaco di una Dichiarazione simbolica che ha riconosciuto il massacro di un milione e mezzo di armeni tra il 1915 e il 1916 come ‘genocidio’, termine che le Autorità turche fanno notoriamente ancora fatica ad accettare. Nel testo votato da tutti e sei i partiti dell’arco costituzionale austriaco – e a cui è seguito un minuto di raccoglimento – si legge: “Viste le responsabilità storiche […] per l’alleanza della Monarchia austro-ungarica con l’Impero Ottomano nella prima Guerra Mondiale […] è nostra responsabilità di riconoscere i terribili eventi come un genocidio e di condannarli”. Nulla di più e nulla di meno: insomma, il minimo necessario per chi conosce obiettivamente i fatti. Invece il Ministero degli Esteri turco ha reagito subito offeso diramando un comunicato in cui si specifica che l’Austria – all’epoca dei fatti appunto alleata dell’Impero Ottomano e a suo modo connivente rispetto agli avvenimenti genocidari, non proprio estranea alle vicende – non avrebbe alcun diritto di “accusare il popolo turco di un crimine” che è “contrario alla verità legale e storica”. Di più: “la dichiarazione del Parlamento ha creato cicatrici permanenti nell’amicizia e nelle relazioni tra Turchia e Austria” e, pare di capire, non sarà facile riconciliarsi. Al che ci sarebbe da trasecolare. Perché in qualsiasi altro caso che riguarda i crimini più efferati del Novecento ormai tutte le responsabilità dei colpevoli – e dei successori dei colpevoli – sono state riconosciute e condivise: la memoria tedesca ha imparato a fare i conti con Auschwitz e Treblinka come quella russa con le Solovki e l’intero sistema concentrazionario dei Gulag. Solo nel caso della Turchia, invece, la narrazione interna è praticamente rimasta ferma a un secolo fa. Certo, esistono naturalmente delle ragioni specifiche molto concrete per cui questo è potuto accadere tra cui quella – non proprio secondaria – che gli attuali confini della Repubblica sul Bosforo sono proprio la conseguenza del processo di unificazione nazionale completato durante, e subito dopo, gli anni del genocidio armeno. Per cui fare autocritica significherebbe anche rimettere in aperta discussione la propria (peraltro giovane) storia identitaria come Nazione, qualcosa che nessuno fa mai troppo volentieri. In questo caso, poi, si aggiungono parecchie altre problematiche come il fatto che nell’ultima fase del genocidio fu implicato anche Ataturk, il grande ‘padre fondatore’ della Repubblica, e – soprattutto – il fatto che oggi al governo del Paese (come alla Presidenza della Repubblica) c’è un partito che pone il nazionalismo fra i suoi valori più alti e indiscussi guadagnando un consenso popolare ampio da parte della società civile. Insomma, come si vede le cose sono complicate. Molto complicate. E non abbiamo nemmeno accennato alla questione del futuro ingresso della Nazione nel consesso dell’Unione Europea, che – com’è ovvio – pure lambisce il tema del riconoscimento delle proprie responsabilità storiche, passate e recenti.

Tuttavia non si può fare finta di niente e, se è lecito un giudizio, la crisi diplomatica scatenata per rappresaglia da Ankara riporta sensibilmente indietro le lancette della storia a un’epoca che pensavamo conclusa: quella delle ideologie. Nonostante tutti i proclami ufficiali – e meno ufficiali – sull’importanza della Storia per le nostre – di europei – radici culturali e spirituali alcuni dibattiti stentano palesemente ancora a decollare. Anzi, se basta una semplice dichiarazione del Papa o un voto simbolico di un Parlamento per incrinare un dialogo consolidato di conoscenza reciproca tra popoli vuol dire che siamo messi male. Certo, anche noi in passato abbiamo avuto le nostre reticenze ma oramai, soprattutto dopo Giovanni Paolo II, la purificazione della memoria – con le relative, implicate e reiterate richieste di perdono – è stata assunta come un dato di fatto acclarato e nessuno più la mette in discussione. Non così invece da altre parti, come si vede in queste ore, e non lo diciamo per elevarci o ritenerci migliori. Piuttosto lo diciamo per auspicare che anche e innanzitutto da noi ci sia più consapevolezza della nostra memoria storica come Cristianità e più approfondimento della dimensione internazionale intrinseca da sempre alla natura della Chiesa perché il tema del genocidio armeno – come accennavamo qualche settimana fa – ha un nesso diretto anche per il riconoscimento delle famose radici cristiane del nostro Continente, fin troppo ignorate, se non proprio misconosciute dalle classi dirigenti. L’Europa delle Istituzioni sembra al momento avere altre priorità ed essere in tutt’altre faccende affaccendata, per la verità non da oggi,  ma chissà che l’esplosione inattesa della sensibilissima ‘questione armena’ non contribuisca a un salutare ripensamento. In ogni caso, non è mai troppo tardi per tornare indietro.

 

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