Cosa troviamo nelle nostre librerie?




Se per la salute dei nostri corpi è consigliabile fare un po’ di esercizio fisico un paio di volte la settimana, per la parallela salute delle nostre menti — versante spesso trascurato a vantaggio del primo — è auspicabile ogni tanto intraprendere una bella esplorazione delle nostre librerie cittadine. Ognuna di queste è un cosmo a sé, con le sue preferenze, il suo ordine nella disposizione dei libri, la sua politica di promozione culturale. Ma al di là di queste differenze, si possono individuare alcune caratteristiche comuni nella classificazione per settori: letteratura di consumo, narrativa e saggistica, destinata al grande pubblico sempre alla ricerca di novità; la sezione dei grandi classici; tutta la saggistica di carattere storico e culturale nel senso più ampio del termine estensibile al costume nelle sue variegate sfaccettature (psicologia, attualità, benessere, cucina, giardinaggio, animali, educazione, etc.); il ricchissimo contenitore della letteratura religiosa e spirituale; i libri per ragazzi e per bambini; la produzione locale con le piccole case editrici della nostra regione. Intorno a questi perni ogni libreria dispone poi ulteriori settori che vanno dai biglietti di auguri e dalle agendine (spesso piccoli capolavori d’arte, pensati per catturare i letterati nostalgici, ma proibitivi quanto al costo) ai cd e ai dvd, fino ai giocattoli e altri ninnoli come segnalibri e braccialetti con il nome o il segno zodiacale, magari con relativo profumo.

In questo ricco e sontuoso teatro c’è tuttavia un grande assente, sorta di Convitato di pietra che nessuno ha più piacere di ospitare: la vera letteratura, quella che oggi manca all’appello, se non in rari casi, riducibili a pochi e selezionati nomi. Si ha l’impressione che il talento e l’autenticità dell’atto letterario si siano fermati alla soglia che divide la seconda e la metà del ‘900, con qualche eccezione disseminata qua e là negli anni successivi. A farla da padrone sono ormai i thriller storici, che attingono al patrimonio di fole e leggende del passato con il suo ricco repertorio di monaci perfidi, di reperti archeologici misteriosi che potrebbero riscrivere la storia intera dell’umanità se non distruggere il mondo, manoscritti maledetti, profezie apocalittiche e cattedrali custodi di segreti terribili. Il medioevo è l’epoca più saccheggiata e dissacrata, sfigurata e resa irriconoscibile. Accanto a queste piccole macchine ingegnose quanto vane sfila la lunga teoria delle opere narrative che ambiscono a un improbabile statuto letterario: un po’ di vita vissuta, qua e là stralci di monologo interiore e canovacci sfilacciati di dialoghi convulsi ripresi dal vivo, un po’ di “ontologia” del caos e dell’insensatezza spacciata per vera libertà, un finale che non conclude mai niente dal momento che non vi è più nulla da sciogliere e risolvere. La vita è lì, colta in superficie, priva di vere domande, ritagliata con lo stiletto di un Io ipertrofico che si crede finalmente libero e autentico perché è riuscito una volta per tutte ad essere “se stesso”.

Perfino i grandi classici in certe librerie sono irriconoscibili. La responsabilità non è della libreria, ma degli editori che sempre più massacrano i gioielli dell’epoca aurea delle lettere e della cultura con edizioni orrende: pensiamo alle diffuse copertine che riproducono le immagini dei film che sono stati tratti dalle opere letterarie — ad esempio “Jane Eyre”, “Madame Bovary”, “Il ritratto di Dorian Gray” e “Cime tempestose”, tutte opere che è facile trovare subito perché si conoscono più gli attori del film che i personaggi del romanzo. Ci sono poi delle edizioni che raccolgono in un solo volume di 3000 pagine se non di più — carta finissima, caratteri microscopici e pressoché illeggibili, peso del volume quasi insostenibile — tutte le opere di un autore o più opere di diversi autori ma dello stesso genere. A rendere improponibili queste edizioni contribuiscono anche le copertine studiate per riuscire accattivanti e spiritose, mentre sono soltanto brutte e inopportune: troviamo ad esempio un libro come “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, che non è certo una divertente passeggiata, con un disegno-caricatura di Ugo Foscolo ritratto nelle vesti di un folle scapigliato, dalle lunghe chiome rosso fuoco, gli occhi sbarrati e un taglio del viso realizzato secondo tecniche cubiste.

Ma ciò che più desta preoccupazione è il futuro della letteratura e soprattutto di tutti coloro che hanno talento, creatività, ispirazione,  ma che non avranno mai la possibilità, per come sono orchestrate le politiche editoriali, di esprimersi realmente e di comunicare con dei lettori. Le grandi case editrici agiscono secondo logiche di potere e fanno gli interessi di determinati gruppi politici; gran parte dei loro best seller sono studiati a tavolino e commissionati al raccomandato di turno che magari garantisce a sua volta qualche ritorno in termini economici e politici. Le piccole case editrici richiedono somme altissime per stampare un ristretto numero di copie che rimarranno nella libreria di casa o finiranno disperse nelle librerie di amici e parenti.

Anche i premi letterari che potrebbero strappare ogni tanto dall’anonimato qualche scrittore capace e motivato sono regolati da flussi di denaro, raccomandazioni e protezioni in alto loco: possono infatti partecipare solo coloro che hanno dei buoni e accreditati “padrini” e che hanno già pubblicato un libro con un’importante casa editrice e che dunque possono garantire un ulteriore incremento delle vendite.

Un tempo scrittori e intellettuali si facevano le ossa nelle principali capitali culturali, scrivevano per i numerosissimi giornali di cultura che allora esistevano ancora senza essere prodotti di nicchia per specialisti, trovavano case editrici pronte a scommettere sul loro talento, premi letterari importanti a cui partecipare anche essendo dei perfetti sconosciuti. Un libro poteva essere pubblicato a puntate sulle riviste e poi trovare anche una pubblicazione in toto. C’erano più movimento, circolazione di idee, di intenti, di prospettive, c’erano soprattutto più canali espressivi che motivavano intellettuali e artisti salvandoli dall’esilio doloroso e sterile cui oggi sono invece spesso condannati.

Nella nostra città la situazione è stagnante e chiusa. Ci sono solo piccole case editrici a pagamento, non esistono riviste culturali — a parte qualche singolo caso poco noto e poco diffuso a causa della mancanza di fondi —, niente premi letterari di una certa levatura, solo piccole scaramucce tra novelle di due o tre cartelle al massimo, scritte tanto per fare qualcosa di diverso dal solito — una sorta di gita domenicale della cultura — e con piccoli premi da tombola famigliare.

Già lo scrittore francese François Mauriac (1885-1970) nelle sue “Memorie intime” lamentava l’assenza ormai — siamo nella seconda metà del ‘900 — di veri romanzi e di grandi scrittori: oltre allo sperimentalismo di pochi, che rendevano sempre più inospitale la pagina letteraria, e le tante opere di basso profilo e largo consumo che cominciavano a colonizzare il mondo delle lettere, poco o nulla restava del narrare nel senso classico e profondo della parola. Narrare che significa costruzione di una storia, di una serie di personaggi, di ambienti esteriori ed interiori che accolgano lo svolgimento di una riflessione seria sulla vita e sull’uomo, sulle ragioni del nostro destino e del mondo che abitiamo. Vi è in Mauriac la nostalgia per una letteratura che oggi nessuno coltiva più e di cui sono stati maestri i grandi del passato: Émile Zola, Gustave Flaubert, Honoré de Balzac, Fëdor Dostoevskij, Lev Tolstoj, Marcel Proust, Georges Bernanos, Julien Green, Saul Bellow, e tanti altri che oggi troviamo nascosti nella sezione dei classici. Libri che magari molti esibiscono nella propria biblioteca e che comperano ancora per motivi più ornamentali che esistenziali e personali.

Mauriac manifesta un sincero struggimento per la mancanza di veri libri, libri da leggere come se si entrasse in un paese sconosciuto, in una nuova casa con una nuova famiglia da conoscere e frequentare. Ogni nuovo giorno ci si leva con un sussulto nel cuore perché sappiamo che quel libro ci aspetta e che una volta aperto sarà come aver spalancato il portale di un architettura tutta da esplorare e che chissà quali nuove rivelazioni e illuminazioni ci donerà. Dissolvere ogni forma narrativa, come è stato fatto da tante avanguardie che hanno prodotto cose illeggibili e indigeste (mi viene in mente l’école du regard con il nouveau roman), non porta da nessuna parte. L’uomo è fatto per imparare attraverso forme, immagini, simboli corposi e reali, attraverso il vario intrecciarsi degli eventi e degli incontri.

Se nella vita stessa non c’è per lui altra strada che questa per evolversi e conoscere — anche quando pensa e medita l’uomo infondo ricorre a immagini, segni e figure —, neanche nella letteratura ci sarà un’altra strada per adempiere quella che da sempre è la funzione dell’arte letteraria. La storia, le storie, il narrare, il costruire, l’evocare, l’incarnare, l’edificare un mondo in cui rileggere il mondo che ci circonda e in cui svelare la quintessenza di eventi e situazioni: questa struttura, che motiva il gesto letterario in assoluto, non può cambiare perché è la sorgente stessa da cui la letteratura è sgorgata. Cambiano le vesti con cui di volta in volta il mondo e l’umanità si presentano e si manifestano, incarnandosi in una storia che muta nelle forme ma poco nella sostanza. La letteratura è sempre alla ricerca di questo fiume silenzioso di verità ancestrali e atemporali in cui riposano i destini e l’essere di ognuno di noi. Se distruggiamo queste forme, anche l’essenza si disperde, come un profumo che, una volta infranta l’ampolla che lo custodisce, evapora e svanisce.

Anche Alessandro Manzoni, uomo dalla vita travagliata a dall’animo tormentato e inquieto, confidava in una lettera ad un amico che ogni mattina non vedeva l’ora di alzarsi per rimettere mano al suo romanzo “I promessi sposi” e ritrovare così i suoi personaggi che ogni giorno gli erano più cari, intimi e famigliari. Là si sentiva veramente a casa, sia per il rapporto strettissimo con i suoi personaggi — anche quelli negativi — divenuti amici per l’assidua frequentazione, sia per lo spazio apertogli dal suo stesso narrare: lo spazio della decantazione della vita, della sublimazione del dolore, della ricerca di Dio attraverso la carne del mondo. Una carne assunta nel suo romanzo e arata dalla sua penna indagatrice e profonda come un aratro fende una terra dura e resistente allo scopo di portarne alla luce quel tesoro spirituale nascosto che rende l’uomo consapevole del proprio destino, oltre che amico della verità e libero dal giogo del tedio e della pena.

Una lezione alta e nobile, che ci piacerebbe vedere espressa più diffusamente e frequentemente in queste nostre pur ricche e colorate librerie che di giorno in giorno assomigliano di più a chiassose fiere venditrici e promotrici di un sapere asmatico e moribondo, bisognoso senza ulteriori ritardi di un riscatto novatore che rinverdisca tante ispirazioni e speranze prosciugate.

 

 

 

 

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