Comunitarismo polacco e drammi italiani




Guardando ad Est una delle ragioni profonde della vitalità continua di quelle realtà – soprattutto nella vivace Polonia, per esempio, su cui spesso ci soffermiamo – è la resistenza delle comunità diffuse nel corpo sociale (particolarmente nelle aree centro-orientali) e del senso di appartenenza alla comunità più in generale. E’ la comunità in effetti a garantire tante dinamiche fondamentali per la crescita umana e morale della società locale, a partire dalla trasmissione quasi spontanea della fede con le sue ritualità simboliche e più tipiche, naturalmente, ma non solo. D’altra parte, si può capire che cosa comporti in concreto l’assenza delle comunità anche al contrario, guardando a quello che può accadere quando queste non ci sono, come quello che è successo da noi appena qualche giorno fa. Le cronache dei giornali ci hanno riportato che in una grande città, e proprio al suo interno, non nelle periferie o nel deserto, una signora incinta al nono mese ha partorito la bimba sul pavimento del vicino di casa a cui aveva bussato disperata alle 3 di notte chiedendo aiuto. La donna era infatti da sola perché il marito lavorava fuori e solo la Provvidenza – che aiuta sempre la vita – ha impedito che il lieto evento si trasformasse in una tragedia. L’uomo, che non aveva mai visto un parto in vita sua, ha infatti subito telefonato al 118 dove ha trovato – una volta tanto – un’operatrice di turno esperta e paziente che passo dopo passo gli ha dato le indicazioni per fare nascere il bambino, da come adagiare la signora per terra a dove tagliare il cordone ombelicale. Tutto via telefono. Uno spavento inatteso nella notte si è trasformato così in una storia a lieto fine. Questa breve storia, però, ci dice anche molte altre cose, che non tornano affatto. La prima: come è possibile che in un condominio grande, di dieci famiglie e più (come si è scoperto essere quello della signora in questione), in una grande città, una donna in travaglio sia lasciata completamente da sola in un momento simile. Pare infatti che il marito molto spesso facesse i turni di notte per il suo lavoro e quindi l’eventualità di lasciare la moglie a casa da sola la sera capitasse piuttosto di frequente. Ma, proprio per questo, ci si chiede come sia possibile che questa debba essere spinta dalla disperazione più nera a bussare alle 3 di notte a un vicino di casa nemmeno tanto conosciuto, a un uomo, gridando “Aiutatemi aiutatemi!”. Come è possibile che in quel condominio di tante famiglie nessun’altra nei nove lunghi mesi della gravidanza si sia avvicinata alla donna, interessata un attimo della situazione, offerto una parola buona che magari si trasformasse in un’attenzione gentile. E qui ci riferiamo soprattutto alle altre donne e signore presenti. Come è mai possibile che nessuna di loro abbia sentito il bisogno, il dovere, anche solo l’istinto femminile di dire “…se ti dovesse servire qualcosa conta su di me”. Il dramma della solitudine della signora è anche – visto da qui – il dramma della fine della solidarietà femminile, che di solito è uno dei primi segnali forti della fine di una comunità. Se in quel condominio, che non è per niente periferico, e nemmeno rientra in una realtà di disagio sociale, è potuta accadere una cosa del genere, significa che la comunità in quel contesto non c’è più.

Appare evidente che qua non si sta parlando – propriamente – di Cristianesimo, però la cosa ha un suo collegamento, si capisce. In un contesto normalmente cristiano, di solito, la condizione della gravidanza di per sé – già solo alla vista, verrebbe da dire – gode di un’attenzione e di una cura tutta particolare, viene socialmente tutelata, se non proprio valorizzata. Mai nella storia in una comunità cristiana una donna in attesa ha partorito lasciata da sola nel più completo abbandono, se pure non c’erano accanto a lei le famiglie di origine – sua e di suo marito – c’erano comunque le amiche, altre parenti o conoscenti più strette, di amicizia o di fede, ‘la comunità’ appunto. L’episodio di questi giorni, a tal proposito, mi ha fatto venire in mente una storia simile nelle premesse ma molto diversa nelle conclusioni accaduta nella mia infanzia. Nel paesino di montagna di cui sono originario ricordo bene la storia di una certa signora Filomena, che non ho mai conosciuto tra l’altro, perché quando ero piccolo, un inverno, ricordo che mia nonna ne parlava quasi ogni sera. Seppi così che questa signora era incinta, prossima al parto, e anche in quel caso (ora non ne ricordo i motivi) il marito era lontano e non poteva essere presente. Ma ricordo benissimo come e con quanta partecipazione mia nonna s’interessò della ‘signora Filomena’ (per me è rimasta così) fino a quando questa non partorì il figlio. Nonostante il fatto che – diversamente dal condominio di cui sopra – mia nonna fosse a due se non tre chilometri di distanza. Lo ricordo bene proprio perché era d’inverno e le nevicate talvolta cadevano abbondanti e la nonna continuava a sperare e a pregare il buon Dio che il bambino si decidesse a nascere prima che si andasse troppo in là perché poi raggiungere ‘la Filomena’ sarebbe diventato più complicato. Non c’erano i telefonini, né la comunicazione istantanea, non era nemmeno nello stesso condominio, ma persino a tre chilometri di distanza io potei vivere i vari momenti di quell’evento come se fossi lì davanti presente, grazie ai racconti di mia nonna e delle amiche che la venivano a trovare e raccontavano a loro volta come avessero trovato in questo o quel giorno ‘la Filomena’. Certamente, il confronto fra le due situazioni opposte ci dice anche quanto sia cambiata socialmente proprio la condizione della maternità che se prima era sempre e comunque un fatto pubblico per la comunità, socialmente ‘attenzionato’, oggi è stato completamente e radicalmente privatizzato, svuotato di ogni significato collettivo, cosicché persino all’interno di uno stesso condominio la nascita del bambino è un affare privato e anzi privatissimo esclusivo solo della donna in attesa, e del marito, forse, se e quando c’è. L’altra cosa che questa storia ci dice è che una comunità si costruisce intorno a cose intangibili che per secoli abbiamo dato per scontate perché le trovavamo già pronte: la fiducia reciproca tra i suoi membri, la condivisione dei momenti rituali della vita famigliare, l’alleanza parentale, la certezza di essere tutti fratelli legati dallo stesso Padre, data dalla comune fede spirituale. Queste cose gli economisti non le prezzano e i politici non le vedono, però poi ci troviamo di fronte a fatti del genere di spaventoso degrado umano in cui ci mancano le parole per descriverli e allora comprendiamo quanto sia epocale la crisi che stiamo attraversando e come – per tornare al caso della Polonia dell’inizio – le realtà che oggi resistono meglio sia umanamente che spiritualmente sono quelle in cui queste quattro cose intangibili vengono coltivate con cura, anche negli altri ambienti. Perché è vero che uno dei segni del declino della solidarietà cristiana è la fine della comunità, ma è anche vero il contrario. La fine della comunità determina sempre in ogni luogo anche la fine della solidarietà cristiana.

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