Questa volta la premessa è d’obbligo: con Pahor, Magris e pochissimi altri, Predrag Matvejevic è rimasto uno degli ultimi narratori di questo spicchio di terra, e delle sue mille e stratificate periferie, nel senso proprio e più alto del termine. Quando prende il lettore per mano, si parte davvero per un viaggio unico e irripetibile. E’ uno dei pochi che intendono ancora l’antico mestiere dello scrivere come un’arte e una disciplina insieme, persino una palestra del pensiero, non come un esercizio accademico di battute da inviare al più presto all’editore per licenziare un altro prodotto anonimo secondo i gusti della clientela e alimentare l’osceno (ci si consenta il termine, per una volta) supermercato contemporaneo delle librerie che in quanto a logiche di fondo spesso non ha nulla da invidiare agli altri supermercati o, anche ipermercati, senz’anima e della peggiore specie. Può piacere o non piacere negli argomenti che sceglie, ma è uno che tratta ancora le trame della lingua con stupefacente, a volte incantevole, disinvoltura e naturalezza, conoscendone i segreti e gli artifici nascosti. Il Nostro ha anche sofferto accuse giudiziarie di rilievo penale in passato per degli articoli scritti sulla guerra fratricida dei Balcani: cose folli e vergognose, non staremo qui a ridirlo ovviamente. E poi, da slavista di livello accademico, è passato per atenei come La Sorbona di Parigi e La Sapienza a Roma, facendo sosta anche al prestigioso Collège de France. Ora, però, detto tutto questo, vorremmo pure dire, se mai ci leggerà, che se lo scrittore non si discute, alcune analisi o taluni giudizi che apparterrebbero più agli storici di professione o agli studiosi del Cristianesimo (ambiti di studio che peraltro presuppongono certo una conoscenza non inferiore a quella poetico-letteraria) si possono e anzi, persino, ci pare che debbano essere discussi liberamente. Prendiamo Il Mediterraneo e l’Europa, ad esempio, una raccolta di lezioni tenute proprio al Collège anni fa e riedite da Garzanti in una delle sue migliori collane con una nuova postfazione su “laicità e laicismo in Europa” (ma guarda un po’) che a sua volta – scopriamo – è una conferenza tenuta nientepopodimenoche davanti alla Commissione Europea di Bruxelles. Lo scrittore è stato infatti per qualche tempo consulente per gli studi sul Mediterraneo del ‘Gruppo dei Saggi’ (espressione francamente dal sapore un po’ classista, se mai ce n’è stata una) dell’organo esecutivo della Ue.
Sorvolando su alcuni elogi senza se e senza ma del disimpegno intellettuale sparsi qua e là (come “il ruolo dello scrittore che edifica il popolo appartiene al passato” o “la letteratura impegnata è morta”) che semmai non contribuiscono ad edificare chi legge – se ci si passa il gioco di parole – soprattutto se poi dagli stessi pulpiti ci si lamenta della decadenza dei costumi dell’Occidente come dell’Europa Orientale, stupiscono i giudizi a dir poco tranchant su interi pezzi di storia che non sono poi tanto distanti da noi. A Matvejevic per esempio non piace Lech Walesa e quello che rappresenta: beh, per noi rappresenta la Polonia profonda e popolare che negli ultimi decenni ha sofferto non poco a causa di persecuzioni, ingiustizie sociali e dittature varie. Questo è un fatto. A Matvejevic forse non piacciono i fatti? A sentire lui quella (l’esperienza di Walesa e quindi di Solidarnosc) è una parentesi “rivolta esclusivamente verso il passato”. Ma il bello viene poco più avanti: “Quanto alla cultura religiosa, le esperienze della laicità sono scarse nella maggior parte dei paesi del nostro continente, in buona parte dell’Europa orientale o centrale: una laicità che non riguarda soltanto il nostro atteggiamento nei confronti di una religione che non è stata adattata alla nostra epoca; la mancanza di una presa di posizione laica rispetto a una concezione religiosa della nazione o a un’ideologia divenuta religione”. Avete capito bene anche voi? Cioè, oggi viviamo in un’Europa scarsa di laicità in cui mancano i modelli secolari? C’è da restare senza parole. E poi, senza ulteriori specifiche: la religione come tale va ‘adattata’ all’epoca? In che senso? Chi lo dice? E da quando? Ma stiamo scherzando? Si dirà che Matvejevic personalmente non è credente: al che verrebbe da rispondere, e allora? Forse che un professore universitario di questo livello che la Commissione Europa sceglie pure come consulente non ha responsabilità educative o non è legato alla responsabilità intellettuale di ciò che afferma? Il culmine, però, lo si raggiunge ancora più avanti quando lo scrittore liquida con un paio di aggettivi i Primati-martiri che all’Est durante il quarantennio del socialismo reale si opposero ai loro (e del loro popolo) carnefici: Slipyj (quello che si fece 15 anni di carcere di cui 8 ai lavori forzati in Siberia, di cui è in corso la causa di beatificazione) e Stepinac (processato con un procedimento farsa e condannato a 16 anni di carcere dal notoriamente ultrademocratico regime titino, probabilmente morto avvelenato, già beatificato) sono etichettati come “collaborazionisti”, il cardinal Mindszenty è consegnato alla storia come un “nazionalista conservatore”. Insomma, pur con tutte le attenuanti possibili che Matvejevic nella sua magnanimità vorrebbe concedergli, “non si può non constatare la presa di posizione anticomunista che ciascuno di essi aveva fatto propria. Non hanno saputo o voluto fare del comunismo un alleato contro il fascismo, come invece avevano fatto Churchill o il generale de Gaulle”. Ma dove ha studiato storia il Nostro, sul Bignami? Si resta esterrefatti di fronte alla noncuranza di certi giudizi sfrontati proclamati con altisonante sicumera. Politicamente ognuno avrà le sue idee, e lo scrittore croato di certo non le nasconde, ma possibile che anche la storia recente all’improvviso diventi opinabile?
Le conclusioni, se non altro, aiutano a comprendere meglio il mondo ideale coltivato da Matvejevic in cui il bene e il male sono ben identificati e diversificati senza possibilità di mescolarsi, alla faccia della satira su chi possiede le granitiche certezze: “La laicità è in grado di aiutare a suo modo le religioni, guarendole dal loro particolarismo, e dall’eccessiva tendenza al proselitismo”. Ancora, lo scrittore cita un’espressione di Benedetto XVI sull’aggressivo laicismo occidentale odierno (“esiste un’aggressività ideologica secolare”) e ne fa una parodia rimandando al modello francese di laicitè. Quindi scrive che “l’impegno” (testuale) di certi testimoni della laicità per l’aborto si scontra con la Chiesa “come accadeva tempo fa per il divorzio”, lasciando intendere quindi – se non capiamo male – un giudizio di merito positivo per i primi e negativo per la seconda. In effetti, tra i Paesi che hanno sostenuto il riferimento alle radici cristiane nel preambolo della cosiddetta Costituzione europea “purtroppo” troviamo “anche l’Italia”. Non c’è che dire, al professore la realtà così com’è, con le sue storie e le sue tradizioni, non piace proprio. Sarà per questo che “per creare l’Europa occorre creare anche gli europei”, il che detto così sinceramente fa un po’ paura. Evidentemente, a suo avviso, non sono mai esistiti. La cosiddetta storia della civiltà europea é tutta una fantasia, frutto di qualche buontempone reazionario in vena di scherzi, non lo sapevate? Beh, adesso lo sapete. Ma quel che è peggio è che adesso lo sanno anche al Collège de France e a La Sorbona. Forse non sa, lo scrittore, che persino quest’ultima è stata fondata da un prete e teologo cattolico (Robert de Sorbon), confessore di un Re cattolico santo (Luigi IX) come collegio in cui insegnare teologia cattolica ai futuri sacerdoti. Proprio come La Sapienza in Italia, istituita da Papa Bonifacio VIII. Mamma mia, tutta puzza di cattolicesimo, per carità. Non lo dite a Matvejevic, mi raccomando, non sia mai riveda qualche idea alla fine. Comunque sia, non perdiamoci in queste quisquilie, buon Natale lo stesso professore, buon Natale davvero.
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