Fa bene Boris Pahor a criticare il cosmopolitismo da quattro soldi in voga oggi: senza radici siamo preda del più piatto conformismo internazionale. Dove sono, oggi, gli intellettuali non allineati?

Boris Pahor e il conformismo insopportabile dei senza radici




Una volta esistevano gli scrittori di frontiera. Ognuno con la sua storia particolare ma legata comunque alla propria terra di origine, anzi guai a toccare la propria terra, le proprie radici. Ora c’è voluto un nuovo intervento di Boris Pahor, uno con cui non siamo spesso d’accordo, per dire finalmente – dall’alto della sua esperienza centenaria – che rivendicare orgogliosamente di “essere un cittadino del mondo” senza patrie, come fanno oggi tanti in tempi in cui dirsi cosmopolita fa tendenza a sinistra e a destra, è una solenne sciocchezza, di più: una moda conformista insopportabile.

Ma quale cittadino del mondo: la nostra storia, personale come famigliare è legata sempre alle origini, vuoi per conservarle vuoi per contestarle. Dal confronto con le figure genitoriali a quelle educative esterne (maestri di scuola, catechisti laici e/o sacerdoti, altri insegnanti di varie discipline) dipende la formazione di gran parte del nostro carattere e della nostra primissima formazione. Sui luoghi della nostra infanzia si costruisce la nostra memoria e la nostra prima fotografia che inseriremo nell’album di famiglia da grandi. Soprattutto, fa osservare Pahor, è la lingua che parliamo a definire la nostra identità e da queste parti il discorso dovrebbe essere ovvio: non si è solo, o semplicemente, italiani, sloveni o tedeschi di lingua, si è anche e soprattutto italiani, sloveni o tedeschi di mentalità, di cultura, di idee. Hai voglia a parlare di globalizzazione, per quanto cosmopolita potrai diventare saranno sempre le tue parole, i tuoi gesti e le tue abitudini a parlare per te in pubblico e a tradirti (si fa per dire) quando meno te lo aspetti.

Un tempo, non a caso, esisteva anche un filone di comicità su questi gustosi equivoci che prendeva spunto proprio dai contesti di provenienza per prendere in giro il cosmopolitismo da strapazzo: della serie, potrai parlare inglese finché vuoi ma se sei italiano quando sarai a tavola chiederai sempre il pane appena sfornato ben cotto e il vino buono, per dirne una, e non sopporterai per nulla al mondo qualche surrogato, o peggio, qualche improbabile imitazione. Da questo punto di vista, ammettiamo candidamente che la globalizzazione come approccio sociale – più che come processo, in sé neutrale – non ci entusiasma poi più di tanto. E forse proprio perché siamo cattolici e, quindi, ‘universali’: proprio perché tendente all’universale, e fondata su una innata ragionevolezza, la nostra fede non ha in effetti mai preteso una utopica omogeneità culturale né ha negato le identità dei popoli. Anzi è stata proprio l’inculturazione locale a generare forme e modalità nuove di dare gloria a Dio: si pensi alle icone slave, per esempio, o ai canti bizantini. Nessuna di queste due cose faceva parte oggettivamente  del patrimonio fondativo originario della tradizione cristiana ma oggi come oggi nessun fedele di quei posti ci rinuncerebbe, e nemmeno noi che le abbiamo poi adottate per devozione popolare.

In ogni caso, per tornare a Pahor, su quello che ha detto secondo noi bisognerebbe aprire un discorso serio e impegnato perché crediamo che oltre ad essere verissima la sua considerazione getta luce anche su diversi altri aspetti del canone odierno della cultura dominante. C’è un conformismo strisciante in giro poggiato senza argomentazioni sul ‘così fan tutti’ che sta dando luogo a un pensiero unico che non viene mai messo in discussione da chi dovrebbe farlo, anzi sarebbe pagato per farlo (dove sono finiti gli intellettuali del dissenso di una volta? c’è ancora qualcuno in giro dotato di un senso critico non allineato?). Dalla moda all’arte all’agenda politica va in onda in questo periodo il festival della banalità permanente senza diritto di contraddittorio alcuno, anche quando la si spara talmente grossa che più grossa non si potrebbe.

Se una volta la filiera culturale era la spina nel fianco del potere costituito adesso – ci pare – è diventata un’arma compiaciuta costantemente al suo servizio. C’è gente che vive ancora allegramente con gli schemi degli anni Sessanta pensando di essere alternativa e non si è accorta che nel frattempo la protesta è diventata abito istituzionale di massa. Una manifestazione vera di protesta oggi sarebbe semmai quella contro la mancanza di educazione in giro, contro il linguaggio volgare e a slogan diffuso sulla stampa e in tv, contro chi si riempie la bocca di multiculturalismo e poi non sopporta la prima semplicissima forma di multiculturalismo con cui si deve confrontare: cioè che non tutti i vicini di casa magari la pensano come lui. Contro il cosmopolitismo da quattro soldi denunciato da Pahor, appunto, velatamente totalitario (che cosa c’è di più totalitario che negare le origini?). Contro la mancanza del senso del pudore. Questo sì che sarebbe rivoluzionario e finalmente originale. Pensateci, guardatevi in giro e dite onestamente se non è davvero così: ne riparleremo.

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