Alla mensa di Gesù Risorto




La visione teologica e spirituale di Romano Guardini è intimamente legata ad una prospettiva molto ampia e onnicomprensiva dell’uomo, colto in ogni sua espressione, dal piano fisico-biologico con tutte le sue funzioni a quello concreto delle azioni e delle scelte, fino al piano più intellettuale e spirituale legato rispettivamente all’intelligenza e alla percezione superiore delle cose trascendenti. La stessa concezione dell’uomo come unità vivente in cui la sfera più materiale e sensibile non va mai disgiunta da quella spirituale ha dettato a Guardini pagine altissime di riflessioni sul rapporto speciale che lega l’uomo “intero” a Dio, il Dio fattosi uomo, sceso nella carne, presente “nel” mondo senza essere “del” mondo, punto supremo sganciato da ogni condizionamento terreno al quale l’uomo, per realizzarsi integralmente, deve sempre sollevarsi nei suoi pensieri, nei suoi sentimenti, nelle sue azioni e nella sua stessa sensibilità fisica. Questo significa che l’uomo vive anche la realtà delle fede, finché è pellegrino su questa terra, con tutta la propria concretezza e corporeità viventi. Non si spiegherebbero altrimenti tutte quelle tradizioni e rituali visibili, dai più quotidiani e semplici ai più straordinari ed elevati, che scandiscono con il loro ritmo e la loro simbologia i tempi forti dell’anno liturgico.
Pensiamo al Natale, con il suo albero decorato, il presepe, i doni e i suoi dolci tipici, per restare nella quotidianità. Lo stesso vale anche per la Pasqua, che ogni anno rinnova la promessa di redenzione universale sigillata dal Cristo morto e risorto. Anche in questo caso, accanto alle funzioni solenni e allo splendore della liturgia che manifestano sotto forma di segni visibili la presenza reale, nell’anima di ciascuno e nell’intera comunità, del Signore che ha vinto la morte ed è entrato nella sua gloria, scorre il tempo ordinario dei riti domestici e famigliari con le sue ricette, le sue decorazioni e i suoi vari preparativi. La Pasqua entra nella concretezza dell’uomo toccandolo anche nei suoi bisogni più immediati, quali il cibo, la convivialità e la bellezza degli ornamenti legati alla primavera e alla rinascita della vita. Tutti noi ricordiamo l’uso di colorare le uova e di preparare dei cesti con rami di mandorlo e primule con cui decorare la tavola per il pranzo di Pasqua.
Anche i dolci tipici dei diversi luoghi manifestano il senso di questa festa solenne: non sono fatti solo per essere mangiati e gustati, ma anche per simboleggiare i momenti chiavi dell’evento pasquale, portando anche a tavola, nell’allegria conviviale, i segni della passione, morte e resurrezione di Cristo. Da noi i dolci pasquali tipici sono, tra gli altri, la pinza, il presnitz, la putiza e le titole: diverse sono le interpretazioni che ora legano la pinza alla spugna imbevuta di aceto accostata al Cristo morente, la putiza alla corona di spine e le titole ai chiodi con cui Gesù fu crocifisso. Interpretazioni fluttuanti, che variano continuamente, ma che dicono nel loro insieme quanto la stessa dimensione della fede, per sua natura ordinata al soprannaturale e all’invisibile, aderisca profondamente alla dimensione anche fisica e sensibile dell’uomo a cui Dio parla continuamente per mezzo di simboli e segni, adeguandosi amorosamente alla capacità di comprensione umana, dai livelli più bassi ed elementari, a quelli più elevati e trascendenti.
In fondo questo modo tipicamente umano di celebrare la Pasqua anche con gesti semplici e concreti, come la preparazione di determinati cibi o la decorazione della casa e della tavola conviviale, da una parte rivela in noi l’intimo legame di tutto il nostro essere, corporale e spirituale, con una dimensione ulteriore, e dall’altra l”infinita tenerezza di Dio che è sceso in questa nostra stessa natura in cui terra e cielo sono impastati. E ci ha parlato nel nostro linguaggio, ha condiviso il nostro cibo, si è stancato come noi e come noi ha avuto bisogno di riposare, come noi ha sofferto e ha dovuto affontare la morte. Ci ha raggiunti in questa nostra finitezza sempre dolente e minacciata e in questa stessa finitezza ci ha salvati e sollevati, senza per questo svilire l’ordine della creazione in cui siamo immersi. Il Dio che risorge e redime l’universo, non salva la creazione annullandola o portandola ad un livello puramente spirituale, ma accogliendola e trasfigurandola in una corporeità gloriosa. Siamo salvati tutti interi e i piccoli atti di fede con cui onoriamo e omaggiamo il Signore con le nostre mani preparando il cibo per il giorno della sua Pasqua sono anch’essi parte della nostra relazione con Lui e del nostro amore per Lui. Niente va perduto, come ben comprendiamo tutte le volte che proprio sotto la specie del semplice pane e dell’umile vino noi ci nutriamo di Lui: neanche una briciola andrà sprecata ai suoi occhi, neanche una goccia cadrà invano. Il Dio in cui crediamo, che è il Signore morto e risorto, non abita profondità e lontananze inaccessibili, ma si fa presente in mezzo a noi. È un Dio che sta alla porta e bussa, in attesa che noi udiamo la sua voce e gli apriamo la porta, affinché noi possiamo cenare con Lui e Lui con noi.

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