Harold Bloom, il celebre critico letterario americano, in uno dei suoi peripli intorno alla letteratura universale dell’Occidente, definisce l’opera di William Shakespeare (1564-1616) il grande codice della nostra cultura, superiore perfino alla Bibbia. In questi giorni si stanno moltiplicando, anche a Trieste, le iniziative culturali per celebrare i 400 anni dalla morte dell’insuperato genio del teatro che, con la sua visione dell’uomo e della vita, e soprattutto con il suo rigoglioso, possente e inconfondibile linguaggio poetico, continua a provocare la riflessione filosofica e antropologica di noi moderni.
Per indicare l’“oggi”, la contemporaneità, adopero sempre il termine “moderno”, anche se esso generalmente è impiegato per classificare la svolta epocale che segnò la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, giungendo a maturazione con l’Illuminismo. In questo senso, “moderno” è un aggettivo che qualifica un arco di tempo, dal XV al XVIII secolo, che elaborò per gradi una nuova visione dell’uomo e della vita, incardinata sull’autonomia delle realtà terrestri, sull’enfasi della scienza e della ragione e sul valore intrinseco del mondo profano.
Ma “moderno” può avere anche un altro significato, connesso all’etimologia della parola che deriva dal latino modo che vuole dire “ora, subito, adesso”, l’oggi nella sua immediatezza e brevità. Non l’“oggi” che ricorre spesso nelle Scritture, specie quelle neotestamentarie, come pienezza dei tempi in cui tutto si compie nell’eternità di un presente escatologico, ma l’hic et nunc dell’attimo, il “qui ed ora” del presente come frammento concluso in se stesso, in sostanza l’“oggi” come carpe diem senza più alcuna coloritura trascendente. In questa accezione la qualifica di “moderno” si attaglia perfettamente ad indicare la nostra epoca, la contemporaneità che stiamo vivendo oggi.
Ritornando al nostro argomento dopo questa breve digressione, vorrei dare voce a qualche sparsa impressione suscitata in me da alcune interpretazioni e letture critiche, le più attuali, di Shakespeare. Quando si conoscono questo autore e le sue opere, è impossibile non venire sedotti dalla grandezza e dalla bellezza della sua rappresentazione del mondo e dell’umanità e dal suo stile rutilante. Uno stile unico, che scocca parole e frasi come frecce infuocate che colpiscono direttamente il cuore delle cose.
Nessuno, come lui, è stato tanto studiato, interpretato, saccheggiato, assediato con congetture delle più stravaganti intorno alla sua esistenza — della quale si sa pochissimo — e con dibattiti infiniti sul canone autentico e definitivo della sua opera. Nessuno, proprio in forza di questo florilegio di attenzioni e di approfondimenti, è stato anche più travisato, forzato a sensi del tutto fuori strada e ad intenti in gran parte ascrivibili all’esegeta più che all’autore stesso. Bloom ha dedicato tutta la sua vita di insegnante e di critico letterario a studiare Shakespeare con una predilezione esclusiva. Anche se ha indagato e interrogato con intelligente inquietudine gran parte della cultura e letteratura dell’Occidente dalle origini ad oggi, il genio inglese è divenuto per lui una patria di elezione. Lo ha letto e riletto, meditato e ruminato con la perseveranza infaticabile con cui un tempo i monaci e gli eremiti ruminavano per giorni, mesi o anni un versetto della Bibbia. Lo ha insegnato con passione contagiosa ai suoi studenti, lo ha frequentato con l’umile costanza di un amante, lo ha inseguito e corteggiato di teatro in teatro, lo ha fregiato del titolo di inventore dell’uomo contemporaneo, l’ha posto perfino al di sopra, come notavamo all’inizio, del codice biblico per profondità e verità nella visione dell’uomo, delle sue passioni e del suo destino.
Questa breve carrellata sullo stato attuale delle letture di Shakespeare, tirato da tutte le parti dalla psicoanalisi, dalla semiologia, dalla filosofia, dall’ideologia politica, dalla linguistica e più o meno da tutte le nuove scienze umane, ci guida ad una considerazione di fondo su certe derive dell’intellettualismo. Questa sopravvalutazione dell’intelletto, frutto dell’incontro tra la ragione e l’erudizione, è oggi il timone della cultura alta e della critica letteraria. L’intellettuale è colui che vive ogni cosa attraverso il filtro del suo sapere — un sapere mondano, profano ormai, fatto di erudizione ma non di conoscenza. Le sue analisi patiscono tutte le limitazioni e gli sviamenti causati da una sproporzione nel rapporto tra cultura e vita: troppa cultura, poca vita vissuta. Cultura e vita sono inscindibilmente legate: senza la vita la cultura è un bel vaso vuoto, senza la cultura la vita è un vino inebriante ma destinato a svaporare e a disperdersi se privo di un vaso che lo contenga. Cultura e vita sono legate in un processo alchemico: la materia prima della nostra “vita” va riscaldata al fuoco dell’intelligenza e della sapienza — la cultura — per trarne la quintessenza, la sostanza ultima. Quando la cultura è solo cassa di risonanza di un sapere teorico e libresco preesistente, senza il nutrimento della vita, allora attecchisce l’intellettualismo.
Nella critica letteraria accade così che intorno ad un libro, ad un autore o a una qualsiasi temperie culturale si coagulino, strato su strato, interpretazioni elaboratissime, intarsiate con citazioni, provocazioni inutili, congetture ridondanti ed esercizi linguistici eseguiti obbedendo al gusto ricercato del suono peregrino e dell’effetto inatteso. Psicoanalisi selvaggia, attribuzioni di intenti e di fini sin troppo ambiziosi e artefatti, anacronismi barocchi, citazioni colte che spezzano continuamente la fluidità del testo, frasi e parole latine e greche o in altre lingue — tedesco, francese e inglese per quel che riguarda la nostra repubblica delle lettere e della saggistica colta — senza il supporto di una traduzione. Procedendo in questo modo, si può scrivere di tutto e di tutti, sbalzando pagine anche ben cesellate quanto all’effetto di insieme; ma si può anche far dire a chiunque qualunque cosa passi per la testa, come nel caso di Shakespeare.
La tragedia antica aveva una forza elementare e potente. Come in uno specchio vi si riflettevano un’antropologia e un sapere del vivere molto chiari e riconoscibili. I grandi temi dell’esistenza, dell’uomo, del destino e del loro mistero, erano il cuore dell’ispirazione. La stessa cosa, con le dovute distinzioni, si può dire di Shakespeare. È l’universale a far vivere e respirare con ampiezza straordinaria la pagina tragica ma anche comica dell’artista, la percezione viva e diretta dell’essere e dell’esistere, nel bene e nel male. L’intellettualismo della critica letteraria si è scavato un labirinto di gallerie che attraversano il sottosuolo del nostro sapere, provocando smottamenti nei punti nevralgici. Il sapere dell’intellettuale rischia di essere l’eco di un’eco che segue ad un’altra eco, suoni evanescenti che non dicono più nulla perché lontana e negletta è la prima parola che li ha originati e di cui essi sono pallidi fantasmi senza pace.
Con il congedo dalla grande tradizione anche interpretativa — pensiamo a un critico come Samuel Johnson (1709-1784), così chiaro, schietto e dotato di un’ottima mira nella ricerca dei significati e dei contenuti —, l’intellettuale ha steso un velo anche sul nostro vero codice esistenziale, spirituale e letterario, che è la Bibbia, e non, come sostiene Bloom, l’opera di Shakespeare, per quanto geniale ed unico quest’ultimo sia stato. Nella Bibbia l’uomo incontra veramente l’uomo, la vita si racconta con sincerità e calore, la conoscenza è sapienza del cuore, intuizione profonda dei domini dello spirito, coinvolgimento di anima e corpo nell’impasto incandescente della creazione e dell’essere. Non vi è spazio per le acrobazie dell’intelletto, le asserzioni e gli imperativi della ragione, l’erudizione fredda e ambiziosa, le idee astratte e le parole senza le cose. La poesia della Bibbia non gioca, non si vela per mostrarsi preziosa e ricercata, non inventa stratagemmi per catturare i lettori e farsi ammirare. La poesia biblica è lo sbocco naturale dell’uomo che contempla il creato e se stesso ascoltando lo Spirito. Non vi è sforzo estetico in essa, né pretesa filosofica o erudita, ma solo vita che vive alle radici e ha ancora il gusto per riconoscere il sale del mondo. La poesia della Bibbia ci dice chi siamo e che cosa non siamo, quali sono le cose di cui abbiamo veramente bisogno, di quale sostanza sono fatte le nostre vite mortali. Ci dice il nostro mistero, ci rivela le nostre altezze e i nostri abissi, i nostri paradisi inondati di luce e i nostri inferni peggiori. E realizza questo miracolo con parole semplici ma così vere che, nel momento in cui le leggiamo, ci sembrano uscite dalle nostre labbra, trovate da noi, scritte da noi, come se ci avessero preceduto in un pensiero che da tempo stavamo elaborando senza riuscire a concluderlo, in una frase che andavamo componendo nel silenzio del nostro cuore senza mai trovare le parole giuste. Quando le leggiamo e ascoltiamo, la nostra anima ha un brivido ed esclama: “Ma era proprio ciò che pensavo e volevo dire ma non riuscivo mai a pensare e a dire in modo chiaro, era proprio ciò che cercavo, ma senza sapere che cos’era né dove potevo trovarlo”.
Se la pseudo-cultura popolare ci porta al di sotto dell’uomo, la cultura cosiddetta alta, in particolare la critica letteraria d’élite, camuffa l’uomo con vesti sontuose ed elaborate che ricadono male su di lui perché sono state tagliate e cucite a tavolino, seguendo un modello astratto, senza aver prima preso le misure reali e provato l’abito sull’uomo concreto che dovrà indossarlo. Questi tempi stanchi per eccesso di macchinazioni cerebrali amano ma anche odiano se stessi e, nell’atto stesso di edificare una dopo l’altra le proprie architetture barocche di parole risonanti più che significanti, muoiono poco a poco di una strana occulta nostalgia: guarire dai sofismi e liberarsi dai fantasmi della ragione astratta, dai furori e dall’ebbrezza dell’interpretazione infinita, dalla psicologia mutila e mutilante che naviga volutamente in acque dai fondali bassi e che quando si incaglia e non riesce ad andare più avanti dichiara, non si sa con quanta onesta consapevolezza, di essere semplicemente arrivata alla meta. L’intellettuale non ama la luce naturale, ma le lampade velate delle sue torri d’avorio. La luce può accecare, meglio schermarsi la vista con delle lenti offuscate e oscure in modo da vedere al posto delle cose come sono — la verità è un fuoco vivo che brucia e può anche accecare —, solo delle macchie incerte, degli aloni informi e malleabili intorno ai quali ricamare sfrenate immaginazioni e chimere. La posta in gioco è molto alta: non rischiamo solo, come uomini, di non esistere più, ma di non essere più.
Un midrash racconta che un giorno un uomo inquieto e molto devoto a Dio decise di abbandonare la propria casa, la propria famiglia e le proprie abitudini di vita per ricercare la sapienza e la vera felicità. Tutto ormai gli appariva stinto e misero rispetto alle grandi cose che poteva scoprire e imparare lontano dalla propria casa e dal proprio villaggio. Dio non poteva essere lì, tra le pieghe di quella sua vita umile, semplice e nascosta. Una notte, mentre l’uomo meditava sul da farsi, guardando la propria sposa e il proprio bambino dormire tranquilli e progettando di abbandonarli entrambi per compiere finalmente il suo destino, nella casa cominciò a risuonare una voce misteriosa che gli intimava di restare. “Resta”, lo apostrofava via via che andava formulando i propri propositi e si abbandonava ai propri sogni. Lo strano dialogo tra l’uomo e la voce continuò tutta la notte. E quando all’alba, nonostante i ripetuti moniti, l’uomo lasciò la propria casa e si mise in viaggio, nel silenzio della dimora addormentata la stessa voce riecheggiò per un’ultima volta: «Come è strana la vita! Quest’uomo mi ha abbandonato per andare in cerca di me».
Lascia un commento